Immaginari, utopie e aspirazioni: un'intervista a Francesca Chiappa di Hacca edizioni
Quello che segue è il terzo appuntamento di una nuova rubrica della sezione percorsi editoriali: una serie di interviste che accompagneranno tutto il nuovo anno del percorso di formazione in editoria, per conoscere persone, temi e mestieri della filiera editoriale, a cura delle nostre corsiste e dei nostri corsisti.
Sperimentale e innovativa: così Francesca Chiappa, fondatrice e direttrice di Hacca edizioni, descrive la casa editrice. A Matelica, un piccolo comune in provincia di Macerata, Francesca porta avanti un’idea di editoria dalla forte personalità, capace di rivolgere lo sguardo al passato attraverso un minuzioso lavoro di recupero del Novecento letterario italiano, ma anche alla contemporaneità, con l’apporto di autori esordienti ed emergenti. Insieme, due prospettive che si fondono per “immaginare il futuro”, grazie ad un catalogo che vuole aprire a nuove visioni e aspirazioni.
di Beatrice Carvisiglia
- Come nasce Hacca Edizioni? Rispetto all’idea di fondo e al tipo di letteratura che avevate in mente alla sua fondazione, cosa è cambiato?
Hacca nasce nel 2006 all’interno di un’altra casa editrice, Halley Informatica. Dopo due anni, ho deciso di rilevare il marchio e di renderla indipendente. Hacca si costituisce quindi formalmente nel 2008 con uno scopo ben preciso: dare voce ad autori esordienti ed emergenti che in quel momento non trovavano spazio nelle librerie. Naturalmente, esistevano già delle case editrici che ospitavano nelle loro collane autori italiani esordienti; ma non c’era in realtà un grande fermento, un’attenzione specifica alla voce nuova di questi scrittori. Ci è sembrato quindi il caso di ritagliarci questo spazio, di occuparlo attraverso la ricerca di un tipo peculiare di narrativa esordiente, che sperimentasse anche nei contenuti e nel linguaggio. Non a caso, tra i primi libri che abbiamo pubblicato c’è Uno in diviso di Alcide Pierantozzi, che era davvero una novità dirompente nel panorama editoriale di quegli anni, con la sua maniera schietta di raccontare la lotta tra il bene e il male. Per un anno nessuno ha parlato o scritto di questo libro, per un anno le librerie non l’hanno voluto. Poi, Massimiliano Parente ha scritto un articolo recensione su Alcide, descrivendolo come una sorta di Dostoevskji italiano. A quel punto è scoppiato il caso letterario, e Hacca Edizioni è cominciato a diventare un nome riconoscibile. Noi abbiamo sempre continuato a fare ricerca nella lingua viva contemporanea di autori esordienti, contestualmente però abbiamo iniziato a guardare al passato, a quel retroterra italiano culturale che non trovava spazio negli scaffali delle librerie. Ci sembrava che questi autori dimenticati potessero ancora raccontare tantissimo di quello che stava avvenendo nel nostro Paese, nel nostro immaginario, nelle dinamiche sociali e culturali che ci interessavano. Per tale motivo abbiamo iniziato un’operazione di recupero attraverso la collana Novecento .0, dapprima ideata da Andrea di Consoli e poi diretta da Giuseppe Lupo.
La collana riporta in libreria il racconto letterario del XX secolo: una narrazione che ci può anticipare ciò che deve avvenire, o che magari ci spiega ciò che non siamo diventati, perché non abbiamo saputo immaginare abbastanza. Affianchiamo dunque la visione di autori contemporanei a quella di autori del passato in cui vediamo un qualcosa da cui attingere, magari per immaginari, utopie o aspirazioni. Direi che Hacca Edizioni pubblica una la letteratura fortemente aspirazionale, che vuole dettare i desideri.
- Come anticipavi, la collana Novecento.0 diretta da Giuseppe Lupo propone una ristampa di opere del secolo scorso. Come selezionate i volumi da recuperare?
In generale si parte sempre dalle proposte fatte da Giuseppe Lupo, che è un docente di letteratura all’Università Cattolica di Milano, e che quindi ha tra le mani tantissimo materiale edito e inedito di grande interesse. Ovviamente non possiamo pubblicare tutto, bisogna controllare una serie di aspetti, e spesso non è facile neanche contattare gli eredi di determinati autori, o avere la loro disponibilità. Tuttavia, devo dire gli eredi a cui abbiamo fatto riferimento sono stati molto felici di portare in libreria autori di spessore, le cui opere non erano incluse nei più importanti cataloghi delle case editrici con cui collaboravano. Penso per esempio a Tempi stretti di Ottiero Ottieri, oppure al recupero dei racconti di Cesare Zavattini, per formare l’antologia I giocattoli. Ancora, mi viene in mente Scritti e discorsi di cultura industriale di Libero Bigiaretti, che ai tempi in cui lavorava come ufficio stampa all’Olivetti aveva immaginato una serie di saggi che avessero a che fare con la cultura all’interno delle fabbriche, dei luoghi di produzione. Cito anche Luigi Davì, un autore scomparso dalla scena letteraria dopo la sua pubblicazione con Einaudi. Davì faceva parte della collana I gettoni di Vittorini e noi l’abbiamo riportato in libreria con i racconti di Gymkhana-Cross. Novecento.0 si pregia anche di aver pubblicato l’esordio di Franco Loi, che a 85 anni ha ripreso il romanzo rimasto nel cassetto per sessant’anni, dopo esser diventato uno tra i più grandi poeti in Italia. A volte siamo riusciti a portare in libreria veri e propri esordi, primi tentativi di scrittura, e non soltanto scritti maturi, opere introvabili o pubblicati in riviste. C’è tutto un mondo del Novecento letterario che può ancora togliersi la polvere che gli abbiamo messo addosso, perché in realtà si tratta di opere davvero contemporanee, che ci raccontano un modo utile di stare al mondo, e che ci spingono a farci carico della collettività. Trovo infatti che in questo momento la narrativa sia troppo ombelicale, troppo riferita a se stessa e che forse abbia dimenticato il collettivo, la società che ha intorno.
- A cosa state lavorando attualmente? Quali sono i prossimi progetti e le nuove uscite di Hacca Edizioni?
In questo momento stiamo lavorando a un titolo per la collana contemporanea e uno per la collana Novecento.0. Per la contemporanea stiamo lavorando al romanzo di Giorgio Ghiotti, un autore giovane ma con grande maturità, di cui abbiamo già pubblicato la raccolta di racconti Gli occhi vuoti dei santi. Si tratta di un romanzo che ha che fare con la sparizione e che cerca attraverso il vuoto di raccontare il percorso di crescita di un gruppo di ragazzi. Per la collana Novecento.0 stiamo invece lavorando a un recupero di Mario Pomilio, uno scrittore che avevamo già pubblicato con Il nuovo corso. Scrittore cattolico, che ragiona su valori cattolici dopo la seconda guerra mondiale, indagando lo spazio vitale dell’uomo nel territorio: sarà in libreria ad ottobre. Dopodiché inaugureremo – spero – una nuova collana di libri illustrati per adulti, con una prima opera legata alla Sibilla appenninica.
- Le copertine di Hacca sono tutte splendide e innegabilmente riconoscibili. Qual è l’idea dietro al progetto grafico? C’è una copertina in particolare alla quale siete più legate?
Noi abbiamo scelto questo tipo di grafica nel 2008, un momento in cui nell’editoria risultavano vincenti i cartonati e le fotografie di ragazze giovani. Inizialmente abbiamo ricevuto tantissime critiche per la nostra scelta, sia dalla rete promozionale che dalle librerie. Le copertine sono state pensate da Maurizio Ceccato, il nostro grafico e direttore editoriale. Abbiamo dato carta bianca a Maurizio e lui ha effettivamente trasposto questo concetto nelle nostre copertine, che sono appunto molto bianche e hanno un tipo di carta con una consistenza peculiare, quasi morbida al tatto. Maurizio Ceccato ha tolto tutto ciò che in quel momento risultava vincente: la fotografia, il titolo più piccolo rispetto al nome dell’autore. Quella era un’epoca in cui vinceva il nome del grande autore: si diceva che se non avevi un “nome” forte a spingere le vendite, i tuoi libri non avrebbero avuto alcuna possibilità. Noi invece scommettevamo su autori esordienti, sconosciuti, i cui nomi nessuno aveva mai sentito; oltretutto li mettevamo in minuscolo in una copertina bianca, non patinata, e con delle illustrazioni singolari che non avevano poi molto a che fare con la storia. Questo perché abbiamo sempre puntato con Maurizio Ceccato a creare delle copertine che non fossero didascaliche rispetto alla narrazione del romanzo, ma che aggiungessero qualcosa in più, che non si potesse leggere nelle bandelle, o in quarta di copertina, dove per esempio abbiamo scelto di mettere semplicemente una citazione. Abbiamo posto attenzione soprattutto alla scrittura e al sentimento che il lettore avrebbe provato all’interno di quel libro. Le copertine sono a volte provocatorie, altre quasi dei giochi, altre volte ancora serissime, ma si tratta sempre di progetti grafici che non ripetono le informazioni e non sono ruffiani con il lettore.
Le copertine di Hacca simboleggiano il nostro percorso, che è di lungo termine. Ogni titolo è un capitolo della nostra storia, che nel corso del tempo si è evoluta ed è cambiata. Spesso i nostri romanzi hanno dato conto di ciò che era ancora invisibile: penso a Chicca Gagliardo che ci ha raccontato in forma di storie l’aria, oppure agli Occhi degli alberi, in cui trovano rappresentazione le forme naturali; penso a Sara Gamberini, che in Maestoso è l’abbandono racconta una storia in cui la trama non esiste, in cui c’è tutto un indicibile e un quotidiano che per la prima volta viene nominato in modo nuovo, diverso. Abbiamo quindi compreso che il mondo esiste se lo nominiamo e che, di conseguenza, cambia se lo nominiamo in modo differente. Questo è stato un po’ il nostro approccio e le copertine hanno seguito tale movimento: se dapprima privilegiavamo figure che avessero a che fare con gli oggetti, ora ci stiamo sempre più spostando verso il mondo vegetale, animale, verso quello che è il postumano.
Per quanto riguarda la mia copertina preferita: io sono sempre legata all’ultima che realizziamo. Questo perché mi interessa soprattutto il processo creativo con Maurizio Ceccato, contestualmente a quello che la copertina trasmette ai lettori e agli autori. Le copertine creano, mettono in movimento il libro in un’altra direzione ancora, magari non percorsa dalla parola scritta, e lo fanno attraverso un semplice segno grafico. Un altro aspetto importante riguarda l’omogeneità delle copertine di Hacca. Le nostre copertine sono tutte uguali anche se cambiano le collane, perché volevamo che il target fosse lo stesso, sia per gli scrittori esordienti che per quelli del Novecento. La nostra proposta editoriale è coerente e quindi non abbiamo bisogno di operare differenziazioni, né dal punto di vista di vista grafico, né da quello della narrazione del catalogo.
- In editoria si parla molto di questione di genere. Attualmente, una percentuale molto ristretta di donne è a capo di una casa editrice. Nel tuo percorso personale, ti sei scontrata con qualche pregiudizio? Qual è il tuo rapporto con la letteratura scritta da donne e qual è il contributo delle scrittrici al catalogo di Hacca?
Devo dire di no, non l’ho mai percepito. Forse, all’inizio subivo un piccolo pregiudizio relativo all’età, perché ho iniziato a fare editoria a 28 anni, un’età in cui normalmente si è impiegati in uno stage: dovevo perciò rapportarmi con persone molto più grandi. È anche vero che sono molto disinteressata a tutto quello che è la classificazione, la categorizzazione degli umani in etichette, che siano uomini, donne etc. Questa è probabilmente il motivo per cui non vedo tali pregiudizi, se non quando noto discriminazioni palesi nei confronti di qualcuno.
Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda, per me non c’è alcuna differenza tra letteratura scritta da donne o da uomini. Io leggo una lingua, una storia che appartiene alla specifica autrice o autore, che non si riferisce a un gruppo differenziato per genere. Certo, è vero che le scrittrici hanno più difficoltà a inviarci manoscritti: spesso creano una distanza maggiore tra il loro intento di scrivere e la consegna poi di un testo; non so se si tratti di impegni di altro tipo, di cura, familiari, o se sia una questione di pudore. Ma obiettivamente ricevo meno manoscritti da scrittrici e quando intercetto un’autrice che mi interessa, so che farò più fatica a farmi mandare qualcosa di scritto. Nel catalogo di Hacca ci sono poche scrittrici, ma importanti: Gianna Manzini che è un’autrice enorme, Dora Albanese che ha raccontato una maternità priva di patina angelicata, Cristiana Alicata che ha narrato l’ordinarietà dell’amore omosessuale, Maura Chiuli, ha indagato fortemente il corpo in tutte le sue declinazioni; c’è stata Chicca Gagliardo, Sara Gamberini, e ora abbiamo pubblicato Elisabetta Pierini, che ha vinto il Premio Calvino cinque anni fa. Noi siamo abituati comunque a ragionare sui libri. A livello promozionale parliamo dei libri, non delle biografie spettacolarizzate, non poniamo l’accento su quello che gli autori o le autrici sono a livello personale.
- Hacca Edizioni è una casa editrice indipendente, lontana dai grandi centri di Roma e Milano. Quanto incide questa lontananza sulle vostre scelte editoriali e sulla vostra identità?
Abbiamo deciso di restare qui a Matelica (provincia di Macerata, ndr) proprio in virtù del forte legame col territorio. Il nostro distacco ci permette di avere uno sguardo più autonomo. Dico sempre che siamo editori di campagna, quasi contadini: piantiamo il seme e aspettiamo che cresca qualcosa, osservando tempi molto più lunghi. Ma questo nostro aspettare si riflette anche nella possibilità di stare fermi e di guardare un po’ più lontano, di non essere troppo inquinati dalle voci, da ciò che si sente in giro. Quando ci sediamo davanti alla porta della casa editrice a guardare l’orizzonte, crediamo di poter vedere qualcosa di diverso. Ovviamente dobbiamo colmare una distanza, che è quella della pronuncia del nostro catalogo: bisogna costantemente chiamare, incontrare qualcuno per raccontare quello che facciamo. Su tale aspetto ci ha aiutato molto la nostra libreria, Kindustria, che ci ha permesso di far conoscere la casa editrice e di entrare in contatto con tantissimi autori, che vengono qui a presentare i loro libri ma anche, semplicemente, la nostra realtà. Si è attivato così un giro di amicizie e di conoscenze che altrimenti non avremmo potuto avere in maniera continua, se non durante le fiere e gli eventi. Questo ci permette di interfacciarci sempre, durante l’anno, con il resto del mondo editoriale, che venga da Roma, Milano, etc. Il dialogo tra noi e gli altri è essenziale. È proprio ascoltando gli altri editori che abbiamo imparato a fare editoria, e continuiamo a fare così. Averli qui ogni giorno, tra le pareti della nostra libreria, rafforza questo continuo dialogo.
- Siete dunque le fondatrici di una libreria indipendente, Kindustria. Qual è il ruolo oggi, secondo voi, di una libreria indipendente, e qual è il suo legame con il territorio? Come sono cambiati i vostri progetti all’indomani del sisma e in seguito alle restrizioni imposte dal Covid?
La libreria è nata dopo la casa editrice, nel 2013, quando abbiamo trovato uno spazio che sembrava proprio fare al caso nostro. Ai tempi c’era solo una libreria di catena nel nostro paese, che esponeva in vetrina soprattutto titoli di grande rotazione commerciale e che non aveva uno spazio dedicato all’editoria indipendente. Dunque, Kindustria è stata la nostra opportunità per dare luce e narrazione agli editori che amiamo e ai loro cataloghi, attraverso un luogo di presidio sul territorio.
Inizialmente, quando gestivamo soltanto la casa editrice, per noi era sempre molto difficile portare un autore a presentare il suo libro, perché non c’era ancora un’abitudine a partecipare agli eventi letterari. Quando abbiamo aperto la libreria ci siamo subito dette che dovevamo creare una comunità di lettori, di partecipanti. Il libro veniva visto come qualcosa di elitario, di profondamente intellettuale che andava o rivendicato o viceversa allontanato, magari per paura. Noi abbiamo cercato di fare in modo che il libro diventasse un oggetto comune. Gradualmente abbiamo organizzato un circolo dei lettori: siamo partiti in sei, in questo momento siamo circa quaranta iscritti. Anche il circolo è cambiato anche con i mutamenti del territorio. Circa cinque anni fa c’è stato un terremoto che ha distrutto completamente la comunità. Tantissime persone che facevano parte del nostro spazio se ne sono andate. In quel momento, la libreria ha avuto diversi compiti: noi abbiamo subito provato a creare una biblioteca a Visso, uno dei comuni colpiti più duramente dal terremoto. Non si faceva altro che parlare di distruzione, di calcinacci, di rotture, per cui avevamo bisogno di un altro tipo di linguaggio. Allora noi abbiamo chiesto a la comunità di donare un libro ciascuno, di regalare parole nuove agli abitanti del territorio. È vero, quella biblioteca non si è ancora creata, ma sapevamo che quel luogo avrebbe saputo raccontare una storia anche attraverso i fallimenti incontrati. Gli spazi ci sembravano allora pericolosi, incontrarsi in una libreria era diventato qualcosa di eccezionale, di straordinario. Per lungo tempo abbiamo dovuto interrompere gli eventi, semplicemente perché avevamo paura di mettere 20-30 persone dentro uno spazio chiuso, avevamo paura di chiudere una porta da cui sarebbe stato difficile uscire in caso di scosse. Poi, quando abbiamo ricominciato ad abitare la libreria, tante persone se ne erano ormai andate. I lettori si sono dispersi. Durante la pandemia c’è stata una situazione simile. Quando è stato dato il via libera, prima degli altri esercizi commerciali, per la riapertura delle librerie, noi abbiamo scelto di non aprire subito perché non c’erano ancora le misure di sicurezza adatte a far rientrare le persone in uno spazio chiuso. Ci dispiaceva riaprire con tabelle orarie per scaglionare gli ingressi, impedendo alle persone l’accesso immediato.
Nel momento in cui si è potuto riaprire con più sicurezza l’abbiamo fatto. Sapevamo che avevamo la responsabilità di cominciare a organizzare le cose in maniera diversa, con nuove sfide, con gli eventi online. Dopo il terremoto, la pandemia ci ha costretto ancora a re-immaginare tutto.
Beatrice Carvisiglia, laureata in Lettere, si è avvicinata al mondo dell’editoria con il percorso di formazione di minimum lab. Attualmente lavora in una casa editrice e nel tempo libero cura Musecolmuso, un podcast che intreccia mito classico e narrativa contemporanea.