Il punto di vista scomodo dello scrittore: la lezione aperta di W.T. Vollmann

Il punto di vista scomodo dello scrittore: la lezione aperta di W.T. Vollmann

Questo è il resoconto della lezione aperta di scrittura tenuta da William T. Vollmann in persona il 12 luglio 2023 nella biblioteca Salaborsa di Bologna, in occasione del suo tour in Italia.

di Francesca Montuschi

Eccoci qui, a lezione con Bill. Potrebbe essere l’incipit di un racconto, dove vecchi amici si ritrovano in un pub a bere qualcosa, che Bill offre con generosità a chiunque si trovi nei paraggi. In realtà siamo davanti al grande W. T. Vollmann, Bill si fa chiamare, che parla di Scrittura, con la S maiuscola. Ha le idee chiare “il ragazzo” e fin da subito mostra quell’abilità che ho sempre pensato dovesse avere uno scrittore: la capacità di saper ascoltare e rispettare i tempi del suo pubblico e del suo traduttore simultaneo, Luca Briasco.

Più rifletto su questo incontro, più mi rendo conto che è stata davvero una lezione aperta, un gomitolo da cui si sono svolti molti fili, gli stessi che spesso ogni scrittore si trova tra le mani quando inizia una storia.
Ed è proprio questo che è capitato a Vollmann quando ha iniziato A table for fortune, il suo ultimo romanzo, ancora inedito in Italia, che conta oltre tremila pagine a cui se ne aggiungono trecento di note.

Il punto di vista scomodo: di geopolitica e scrittura

In A table for fortune l’autore mette in scena la vergogna profonda che da americano prova nei confronti dei crimini che il suo paese ha commesso durante la seconda guerra in Iraq. Bill parla scandendo bene le parole, con una strana delicatezza nella voce. È figlio di un padre fiero di essere americano e vuole provare a capire ed esporre le ragioni (o le non ragioni) del comportamento del suo paese in nome di quel patriottismo mal diretto. Per poterlo fare, sceglie un punto di vista scomodo. Una prima grande lezione da segnare nel taccuino dei consigli per diventare scrittore. E siamo tanti questa sera, nonostante il caldo torrido.

Vollmann non lo chiama per nome il protagonista del suo romanzo, non ancora almeno. Dice solo che è il classico esempio di americano patriota, con idee politiche di destra e che ha combattuto in Vietnam. Durante questa guerra viene reclutato dalla CIA. Il suo desiderio è di essere schierato in prima fila nella lotta contro l’Unione Sovietica, nemico numero uno del suo “Paese”. Gli viene invece affidata la Germania Orientale.

Non è una scelta casuale per lo scrittore e se vi sembra che si stia parlando di geopolitica, preparatevi a prendere nota di come ogni decisione narrativa sia funzionale alla storia. E non solo, ma anche di quanto sia fondamentale la scelta del punto di vista adottato per la propria narrazione. Con la caduta del muro di Berlino, infatti, e il crollo della Repubblica Democratica Tedesca, gli archivi della STASI, uno degli apparati polizieschi tra i più repressivi d’Europa, sono stati aperti al pubblico. La possibilità di accedere ai documenti della Stasi sulla CIA permette di osservare l’operato della Central Intelligence Agency da una prospettiva esterna, da un nuovo punto di vista. E questo per Vollmann è stata una rivelazione. Mi guardo intorno, la sala piena di volti noti e meno noti. Ho l’impressione che si stiano tutti chiedendo quale sia stata la loro di rivelazione. Ecco questa credo sia un’altra parola da evidenziare sul taccuino.

Dopo il crollo del muro di Berlino, la storia del protagonista si stacca dalla Germania Orientale e le vicende narrate lo vedono coinvolto in altre guerre sporche, prima in Angola e poi in Iraq. Qui, però, si trova nei guai, perché dopo l’11 Settembre, un patriota di destra, onesto come lui, non può non rendersi conto che non c’è una ragione reale per cui gli Stati Uniti abbiano abbattuto Saddam Hussein e invaso l’Iraq. A un certo punto, che piaccia o non piaccia, la crepa deve arrivare e spesso, dal punto di vista narrativo, è meglio se si allarga. E Bill lo ha fatto. Al suo protagonista ha dato un figlio, un ragazzo genuino, sincero e che odia il padre per il suo operato e per il suo coinvolgimento nelle attività della CIA. Uno slancio profondo, perfetto per spingere il ragazzo ad abbandonare la casa e vivere come homeless fino alla deriva che lo porterà alla morte.

Il gomitolo dello scrittore

Un romanzo così lungo può mettere in crisi non soltanto le convinzioni comuni ma anche le relazioni più solide, come quella tra un autore e il suo editor. Non è difficile da comprendere come tremila pagine possano scoraggiare chiunque. È successo anche all’editor di Bill, che dopo l’entusiasmo iniziale, vedendosi consegnare sempre più cartelle, ha chiesto all’autore di ridurre il testo. Vollmann ci ha provato. Ci ha provato davvero. Ha lavorato al suo romanzo moltissimo e ha tagliato altrettanto, tanto da consegnare un testo più lungo di duecento pagine. Sorride Bill e fa sorridere il suo pubblico. Ma difronte a questo lavoro la casa editrice Viking Press ha rifiutato di pubblicare il libro.

Perché quindi scrivere in questo modo? Bill ha la consapevolezza di richiedere molto ai suoi lettori, ma anche (e direi soprattutto) a sé stesso. Scrivere è già di per sé un’attività stancante e di certo lo è ancora di più “in questo modo”. Ed è anche una stanchezza fisica vera e propria. Bill confessa di soffrire di tunnel carpale. E allora perché imporsi questa fatica? Perché, se ci si vuole sforzare di capire la storia, bisogna pensare di avere tra le mani un gomitolo grossissimo che si svolge e da cui, a mano a mano che si srotola, partono infiniti fili. Capita che ci si trovi, alle volte, a inseguire fili di cui non si sa nulla. Così, partendo dalla guerra del Vietnam, che gli è nota, Vollmann si è ritrovato a riflettere sulla guerra in Angola. Potrebbe non interessare, trattandosi di una delle guerre segrete degli Stati Uniti. Ma la guerra in Angola è stata fatta perché Kissinger, dopo il Vietnam, voleva punire i Sovietici con lo scopo ultimo di provocare il massimo numero possibile di perdite di vite umane. Di fronte a questo, uno scrittore non può far finta di niente. E se pensate ancora che si stia parlando di geopolitica e non di scrittura, non dell’impegno dello scrittore e non di punti di vista, aggiungo l’ulteriore riflessione di Vollmann. Pensando infatti alla guerra in Ucraina, di cui confessa di non saperne molto, si chiede se non sia che anche questa guerra venga alimentata ad arte da superpotenze che non sono neanche direttamente interessate al conflitto sul territorio. Ovvero non è possibile che ci si trovi di nuovo in una situazione simile a quella che ha provato a raccontare in Angola? E ragionare partendo da questi fili porta alla vera domanda che muove la sua narrazione e la sua scrittura: possiamo fare qualcosa per fermare questi conflitti? Forse è una domanda ingenua, come la definisce lui stesso, ma è una domanda che ci si deve porre e soprattutto che deve porsi uno scrittore.
Perché se tutto questo può sembrare un discorso di geopolitica, in realtà si sta parlando del lavoro dello scrittore. E il lavoro dello scrittore è scoprire il punto di vista altrui, riuscire ad avere uno sguardo altro su di sé, sulla realtà, sul proprio paese.

I cortocircuiti dello scrittore

Due agenti in pensione della Stasi hanno raccontato a Vollmann quanto fosse bello il muro di Berlino, quanto la Stasi stessa fosse migliore della CIA e come considerassero la guerra in Iraq il crimine del secolo. Un punto di vista. E contro questa opinione, Bill mette in scena la fuga da casa del figlio del protagonista, la sua vita da homeless e il suo tentativo di capire cosa siano l’America e la libertà partendo da ciò che lui stesso vede. L’esistenza di punti di vista differenti consente allo scrittore di innescare cortocircuiti narrativi. L’esperienza della homelessness, ovvero la rinuncia alla casa e il viaggio costante, è un’esperienza che ha vissuto anche Vollmann. È interessante ascoltarlo mentre dichiara che il vero problema di un homeless negli Stati Uniti è trovare dei gabinetti, dei posti dove potersi lavare. “Perché se dopo un paio di giorni non ti lavi, cominci a puzzare, e se cominci a puzzare, la gente inizia a odiarti e siccome tu non riesci a dormire, tu a tua volta inizi a odiare la gente”. Ci vuole molto poco perché un’esperienza del genere diventi un’esperienza negativa. Eppure non sarebbe così difficile gestire gli homeless e ci sono esempi di tendopoli ben organizzate. Esistono, però, anche tendopoli terribili, dove girano droghe, armi, dove le violenze sulle donne sono all’ordine del giorno. Ecco uno dei motivi per cui il suo romanzo è diventato più lungo di quanto lui stesso si aspettasse: perché ha inseguito il filo della homelessness, il desiderio di raccontarlo e di mettere quindi in cortocircuito la parte della CIA con la parte dei senzatetto. Un’altra parola da evidenziare sul taccuino.

Racconto e fotografia, una questione di dettagli

Vollmann è uno scrittore che sa cimentarsi anche con la narrativa breve. È appena uscito in Italia per minimum fax L’Atlante, una raccolta di cinquantadue oggetti narrativi diseguali per lunghezza e tono. Il suo grande mito letterario Yasunari Kawabata con i Racconti in un palmo di mano lo ha ispirato. Bill, infatti, ha raccolto una serie di testi, alcuni molto brevi, usando la struttura del palindromo (in pratica, il primo testo richiama l’ultimo, il secondo il penultimo e così via). Sono diverse le modalità con cui un racconto rimanda all’altro. In alcuni casi, infatti, i testi a specchio hanno in comune la stessa ambientazione. In altri, sono ambientati in luoghi diversi ma hanno una connessione tematica molto forte. Vale la pena sottolineare, soprattutto per chi si cimenta con la narrativa breve e con le raccolte di racconti, che questo tema comune, a volte, emerge anche in modi casuali. Non tutti i testi, infatti, sono stati scritti espressamente per L’Atlante, ma sono stati raccolti solo in un secondo momento. Ed è in questo lavoro di raccolta che Vollmann ha scoperto o riscoperto alcune analogie, i giochi di rimandi che fino a quel momento erano rimasti nascosti anche a lui. Capita quando scatti una foto e c’è un dettaglio che ti sfugge del tutto. La macchina fotografica, però, ha memoria e non lo perde. Recuperando quella foto, si può ritrovare quel particolare passato inosservato. Magari è proprio una persona sullo sfondo, come è successo a Bill con le fotografie scattate per il suo romanzo I Poveri. Le fotografie gli hanno rivelato solo in un secondo momento alcuni dettagli, proprio come è capitato con le storie raccolte in L’Atlante.
Non sono anche i racconti una questione di dettagli? Aggiungete questo punto sul vostro taccuino.

Bill fa un esempio: la prima e l’ultima storia sono molto brevi ed entrambe ambientate a Sarajevo. Possiamo definirle dei reportage semplici, veri e propri esempi di scrittura reportoriale o giornalistica, come fa notare Luca Briasco.
E davanti a situazioni drammatiche e di conflitto, cosa può fare uno scrittore? Può solo scrivere. Questo è il consiglio che Bill regala a tutti coloro che vogliono scrivere di situazioni così estreme. È molto difficile capire fino in fondo certe realtà perché è vero, per esempio, che gli homeless sono vittime, ma è altrettanto vero che spesso loro stessi contribuiscono a creare la propria vittimizzazione e le situazioni in cui si ritrovano.

Il più grande errore che uno scrittore possa commettere è affermare di avere la risposta. È probabile che non ci siano una risposta e una soluzione; in ogni caso, però, non spetta allo scrittore trovarla. Lo scrittore ha il compito di raccontare; forse ci sarà qualcuno tra quelli che leggono o anche tra quelli che non leggono così brillante e intelligente da trovare una soluzione, ma di certo non sarà lo scrittore.

La ricerca digitale e analogica

La prima domanda che gli viene rivolta è sul suo rapporto con Internet. Vollmann risponde ricordando quando nascevano i primi siti web e gli capitò di stampare dei documenti per una ricerca. Quando è tornato sul sito, quei documenti non c’erano più. Ecco il suo problema con Internet. Per lui, le informazioni che vi si trovano non hanno le caratteristiche della fissità. L’idea che l’informazione cambi di continuo perché “invecchia” non lo convince. Preferisce le ricerche in biblioteca o la consultazione della sua vecchissima e obsoleta enciclopedia del Novecento, che seppur contiene ogni sorta di abominio classista e razzista, riporta le informazioni per quello che sono. Spetta a lui avere gli strumenti per saperla usare.

Segnate sul vostro taccuino il suo consiglio: “se volete usare Internet, assicuratevi di avere una copia robusta di tutto quello che andate a consultare perché vedrete che molto probabilmente non la troverete più. Prendete le cose così come sono, quando sono, con tutte le caratteristiche che hanno nel momento in cui le prendete. Le informazioni che avete, sono quelle e sono legate al momento in cui le trovate”. Internet ha un carattere mutevole e quindi difficilmente può essere utilizzato per il lavoro di ricerca dello scrittore, a suo giudizio.

Come scrittore, sente anche il bisogno di opporsi alla tendenza per cui il senso e l’uso delle parole debbano cambiare nel nome di ciò che è corretto dire o non dire sul conto delle persone. Per esempio, prima si usava la parola “homeless”, adesso “homeless” è considerata offensiva. Se ci si sposta dall’ovest all’est, l’espressione global warming non va bene.
L’instabilità del linguaggio come conseguenza della paura di offendere è per Bill una battaglia che lo scrittore deve combattere.

Un demone chiamato stile

Quando gli chiedono di parlare del suo stile, Vollmann confessa il suo più grande terrore, ovvero quello di essere schiavo di una specifica forma. È il suo demone. Ha scritto di tantissimi temi e i suoi progetti narrativi a volte sono molto ambiziosi. Come nel caso del ciclo I Sette Sogni dove ha provato a raccontare la storia del continente Nord Americano dal punto di vista dei nativi. Ma anche in questo caso, ogni romanzo facente parte del ciclo è scritto in un modo differente.

Per prima cosa cerca di visualizzare, e cerca di farlo prima ancora di conoscere troppo, perché, in caso contrario, quello che va a raccontare inaridisce la sua forma. Per esempio nel volume di The Dying Grass (non ancora tradotto in Italia) ha ritenuto che il modo migliore per narrare le vicende fosse far parlare il paesaggio. Ha visitato i luoghi, ha attraversato la zona delle grandi pianure ed è andato a “sentire” il paesaggio stesso per provare a raccontarlo. Solo dopo vi ha calato dentro la storia. Non userà più questa tecnica però, così come dubita di scrivere ancora un palindromo, perché ha bisogno di vedere e conoscere sempre di più ed è questo bisogno ad alimentare con costanza il suo slancio. Poi questo slancio, di volta in volta, trova la sua strada, la sua forma, il suo stile.

Sperimentare è la parola chiave che caratterizza il suo lavoro anche dal punto di vista stilistico. E la sperimentazione arriva perfino a farlo giocare con font diversi in A Table for fortune. Scrive, per esempio, con font diversi i rapporti della CIA e quelli della Stasi dall’altra, scrive in tondo le parti più narrative, scrive le fantasie erotiche del protagonista con lo stesso carattere del font che usa per i rapporti della CIA creando effetto comico.
I suoi strumenti formali cambiano di libro in libro.E sperimentazione è la parola da segnare sul vostro taccuino alla fine di questa incredibile lezione.

Grazie Bill.

Francesca Montuschi è consulente di progetti editoriali e editor. Ha frequentato i corsi di minimum fax.

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