Noir, fantastico, weird, grottesco: una lezione aperta sui generi letterari e i loro luoghi

Noir, fantastico, weird, grottesco: una lezione aperta sui generi letterari e i loro luoghi

Per presentare alcuni temi dei moduli del laboratorio di narrativa si sono tenute tre lezioni aperte di scrittura.
Questo è il racconto del terzo e ultimo incontro, con Emanuela Cocco, Orso Tosco e Veronica Galletta, in cui abbiamo iniziato a riflettere sulle caratteristiche distintive di alcuni generi letterari.

di Carmela Fabbricatore

Non è poi così difficile, per chi scrive, smarrirsi nell’intricato dedalo della letteratura di genere: un territorio talvolta alienante, in cui la tecnica narrativa si impregna di emotività e dove la consistenza dei luoghi fisici è spesso contaminata dall’irrealtà. L’ultima lezione introduttiva del laboratorio di narrativa minimum lab ha in questo senso tracciato delle coordinate utili a disegnare una mappa per orientarsi nella letteratura della paura. La dissertazione si è aperta con una domanda precisa.

Ci sono distinzioni tra i generi noir, fantastico, weird e grottesco?

A rispondere è una staffetta di tre personalità letterarie che ben conoscono la materia: Emanuela Cocco, direttrice della collana tReMa (Arcoiris) dedicata ai racconti neri e inquietanti, Orso Tosco, autore del noir post-apocalittico London Voodoo e Veronica Galletta, che ha esplorato i temi delle presenze fantasmatiche e dei loro luoghi nelle opere Nina sull’argine e Le isole di Norman.

Al di là dei limiti imposti dalle definizioni, c’è una cosa su cui si concorda fin da subito, ed è il superamento dell’idea di letteratura di genere in antitesi alla concezione più elitaria di alta letteratura. Si tratta di una contrapposizione ormai obsoleta, che non tiene conto della complessità autoriale sottesa a numerose opere che, nel tempo, sono state connotate negativamente come di genere solo perché destinate a un pubblico allargato. A tal proposito, Emanuela Cocco cita un esempio eloquente: Occhi Senza Volto (Georges Franju, 1960), un film horror fuori da ogni canone, che può oggi essere considerato un cult senza tempo, sebbene la critica dell’epoca lo abbia frettolosamente etichettato come B-movie.

Più che tracciare confini e fare classificazioni, potrebbe essere più utile ai fini creativi fare riferimento a un generale macrocodice della paura applicabile alla forma letteraria (ma non solo): in questo senso, il genere si configura come un linguaggio con dinamiche strutturali proprie, che forza e reinterpreta quel concetto di “sinistro” molto caro a Poe. La letteratura sinistra catapulta il lettore in un mondo dove la realtà si carica di una tensione emotiva che ne deforma gli aspetti solidi, generando perturbazione e inquietudine. L’alterazione può prevedere o meno l’elemento fantastico: la tensione riesce infatti a sprigionarsi anche in sua assenza, come del resto ci insegna la maestra del thriller Patricia Highsmith, che in Come si scrive un giallo fornisce gli elementi chiave per una scrittura capace di connotare personaggi e situazioni ordinari di un’atmosfera di genere (dice Highsmith: Il germe di un racconto può benissimo iniziare con il più esile dei fatti, degli avvenimenti o dei casi come le cruciali impronte che la pioggia lava dal bicchiere lasciato in terrazzo).

Lo spazio della paura

È dunque proprio la tensione emotiva sprigionata dalla narrativa che accerchia il lettore nel mondo reale facendogli abitare la paura. Non è raro che a risultare inospitali siano proprio i luoghi in cui ci si dovrebbe sentire più al sicuro, come ad esempio le mura domestiche. La casa come posto sgradevole è un leitmotiv che ha ispirato molti maestri della suspense, che con la loro scrittura sono riusciti a proiettare esternamente, tra stanze vuote e mura labirintiche, la carica emotiva della psiche perturbata dei personaggi.

È il caso di Julio Cortázar, che nel racconto Casa Occupata fa diventare la casa uno spazio interdetto da una presenza perturbante: i personaggi vengono spinti fuori da essa e dunque fuori dal racconto. Oppure di Effi Briest di Theodor Fontane, in cui la dinamica dell’orrore si esplicita attraverso gli oggetti domestici, che si alterano creando estraneità (concetto, questo, magnificamente restituito dalla potenza visiva dell’omonimo film di R.W. Fassbinder).

C’è poi Shirley Jackson che aggrava le dimore dei suoi romanzi di una forza mistica e sinistra. Gli edifici nascondono insidie, come si apprende in Abbiamo sempre vissuto nel castello e come si legge nell’incipit dalla forte connotazione espressionista de L’Incubo di Hill House:

 «Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola».

Come le case dei film di Luis Buñuel, gli spazi della paura cambiano continuamente configurazione, così come a mutare di continuo è lo stato dei personaggi, spaesati e disorientati dinanzi al perturbante. Lo straniamento è generato dal rovesciamento di una convinzione, quella di essere in un posto sicuro, e dalla progressiva presa di coscienza di trovarsi esposti a qualcosa di pericoloso e incontrollabile.

Il paesaggio della paura

Spesso le configurazioni proprie della letteratura di genere consentono a una storia di espandersi al di là del limite imposto dalla forma. È quanto accade in Picnic aD Hanging Rock (Peter Weir, 1975), esemplificazione cinematografica di come sia possibile creare lo spazio del perturbante a partire da un codice stilistico più che da un intreccio o da un gusto per il grottesco. Qui il lavoro della paura avviene fuori campo, ed è esattamente questo a operare una trasformazione alienante sui personaggi. C’è qualcosa di mostruoso nello spazio profilmico, una presenza orrifica che non viene mai inquadrata ma che sappiamo essere reale. In un racconto ordinario, quello che inizialmente è lasciato all’intuito verrebbe alla fine esplorato, rivelando un altro pezzo di realtà. Ma questo nel film non accade mai, c’è solo un paesaggio che giganteggia: è proprio lì, in uno spazio indefinito che non si riesce a dominare, che si svolge una storia di cui non si conosce nulla. Si tratta di uno scenario sublime e arcadico fatto di rocce maestose che sovrastano i personaggi. Una natura senza volto esercita una forza magnetica, che inghiotte i protagonisti (e, per loro tramite, lo spettatore) per poi ributtarli fuori sconvolti e profondamente turbati.

Allo scenario campestre di Weir potrebbe fare eco, per contrapposizione, la Londra iperurbana che Orso Tosco racconta in London Voodoo. Il suo è un romanzo che dialoga con la società (e che per questo si potrebbe definire politico), ma che si distingue per una scrittura tensiva pervasa di elementi di genere che innalzano il livello dello stile. Il lettore è lasciato solo a confrontarsi con il caotico, stranito anche a causa di una voce narrante in seconda persona volutamente scostante, che parla con un tono poco compassionevole. Anche in questo caso, è il luogo a configurare lo spazio del perturbante. Con il suo fraseggio particolare, il tessuto urbano di Londra consente un’accelerazione quasi angosciosa del movimento narrativo e della follia dei personaggi. London doesn’t care: c’è una metropoli che rende liberi ma in cui può accadere di tutto, dove la realtà può diventare sempre più complessa, fino a esasperarsi e, alla fine, implodere.

Tutta la letteratura pulsante può essere di genere, afferma Orso Tosco, e d’altra parte è proprio della narrazione tra esseri umani aggrapparsi a qualcosa che l’ha preceduta. Ponendo in questi termini la questione, anche la tensione ritmica di Céline o le atmosfere di Kaputt di Curzio Malaparte possono tracciare la strada per una letteratura nera. Altre suggestioni vengono poi da La famiglia che perse tempo, romanzo semisconosciuto di Maurizio Salabelle (in cui si ripropone il tema della casa come luogo alienante) o dalle atmosfere lynchiane di Twin Peaks: qui l’ordinario viene materialmente squarciato, liberando una dimensione orrifica che amplifica il concetto stesso di paura.

I luoghi mantengono la memoria

C’è poi un aspetto che unisce lo spazio fisico, i generi e la letteratura ed è la memoria. Quando la paura riemerge da una traccia del passato o si stacca da un’ombra del presente, l’effetto straniante si ripresenta sotto forma di un’apparizione evanescente, sfumata nel paesaggio. In questo senso, i luoghi mantengono la memoria e una specie di umanità, diventano personaggi a tutti gli effetti. È un concetto, questo, che ricorre spesso nei romanzi di Veronica Galletta e che in Nina sull’argine si manifesta letterariamente attraverso il personaggio di Antonio, una presenza fantasmatica che appare dal nulla in una buca del cantiere supervisionato dalla protagonista, Caterina. Oltre a farsi portavoce di una toccante storia personale, Antonio rappresenta anche la proiezione di una grande paura di Caterina, quella di veder morire sul lavoro qualcuno degli operai di cui è responsabile.

La memoria dei luoghi e delle cose è anche il fulcro di Memoria della memoria di Marija Stepanova, un romanzo di formazione che riesce a superare la nomenclatura di genere: la protagonista gira il mondo provando a ricostruire il passato di una famiglia che non ha conosciuto, sulla base di oggetti disaggregati, case vuote e frammenti di esistenze spezzate, quasi impossibili da ricomporre e, per questo, generatori di spaesamento.

Fantasmi e assenze sono dunque funzionali alla rappresentazione di un particolare tipo di terrore, quello per la perdita e per la scomparsa delle persone e delle cose più care. Una scrittrice particolarmente incisiva in tal senso è Mariana Enríquez (Le cose che abbiamo perso nel fuoco e Quando parlavamo con i morti), capace di restituire con la sua scrittura lo spaesamento generato dal dolore personale e dal disagio sociale.

Al termine della lezione, risulta chiaro che esistono davvero tanti modi per ricreare la geografia dell’inquietudine, ma l’approccio letterariamente più efficace potrebbe essere quello di cercare dentro di sé un personale luogo della paura, scavare nelle profondità ancestrali, lasciarsi inghiottire dal proprio terrore primordiale per conoscerlo fino in fondo e poi restituirlo.

Bibliografia

  • Ritorno a Hanging Rock, antologia di racconti a cura di Emanuela Cocco
  • Nina sull’argine, Veronica Galletta
  • Le isole di Norman, Veronica Galletta
  • London Vodoo, Orso Tosco
  • Come si scrive un giallo. Teoria e pratica della suspense, Patricia Highsmith
  • Tanto amore per Glenda, Julio Cortázar
  • Bestiario, Julio Cortázar
  • Abbiamo sempre vissuto nel castello, Shirley Jackson
  • L’incubo di Hill House, Shirley Jackson
  • Effi Briest, Theodor Fontane
  • Le cose che abbiamo perso nel fuoco, Mariana Enríquez
  • Quando parlavamo con i morti, Mariana Enríquez
  • Topografia, Sylvie Richterová
  • Lacuna, Nicola Gardini
  • Mindscapes, Vittorio Lingiardi
  • L’ospite e altri racconti, Amparo Dávila
  • Lasci la stanza com’è, Amilcar Bettega
  • Kaputt, Curzio Malaparte
  • From Hell, Alan Moore (miniserie a fumetti)
  • La famiglia che perse tempo, Maurizio Salabelle
  • Memoria della memoria, Marija Stepanova

Filmografia

  • Picnic ad Hanging Rock, Peter Weir, 1975
  • Occhi senza volto, Georges Franju, 1960
  • Effi Briest, R.W. Fassbinder, 1974
  • I segreti di Twin Peaks, David Lynch e Mark Frost, 1990-1991

Carmela Fabbricatore ha frequentato il percorso di formazione in editoria di minimum lab. Si occupa di letteratura e progettazione culturale, crede nel potere terapeutico dei libri.

[La foto è di Krisffer Aeviel Cabral]

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