Anja, Angel e me, un racconto di Diana Chiarin

Diana Chiarin, veneziana, classe 1969. Di sé dice:
Mi piacciono le parole, quelle dette, quelle scritte, quelle cantate o dipinte. Leggo molta poesia che ritengo sia una forma di resistenza. Amo la letteratura, la narrativa contemporanea, e i racconti dell’orrore. A volte mi capita di incontrare storie che diventano un’ossessione e che pretendono di essere raccontate o lette. Nella mia libreria dello spirito, vorrei che un mio libro, giacesse vicino a quelli di Haruf, Offut, Mencarelli, Foster Wallace o la mia adorata Plath, anche se temo finirò nella bancarella dei libri in omaggio con un fustino di detersivo.
Lo scorso anno ha frequentato il nostro laboratorio di narrativa, dove è nato il racconto che segue.


Anja, Angel e me

– Tra un po’ piove anche qui – dice Anja, fissando la linea dell’orizzonte, più in là, verso il mare aperto.     
Annuisco. Il cielo sembra tagliato di netto a metà. Nella parte più scura e lontana sta diluviando. Torno a guardare la nostra proiezione privata. Anche Anja spia l’interno dell’appartamento di fronte, i nostri vicini che cenano.    
– È il nostro cinema privato, meu amor – sussurra a bassa voce, mentre al buio, ci intromettiamo negli affari di Agnes e Sasha.         
Stasera Anja, anzi, Anastasìa che fa rima con fantasìa, porta i panni di Angel.           
– Se pronuncia Anghél con la gh come Hegel, meu amor –, mi aveva corretto una volta, sorprendendomi come sempre.        
– Sai chi è Hegel? – Le avevo chiesto stupita. 
– Certo amor, qui faccio la puttana, ma in Brasile andavo all’università!       
Del suo passato non ha mai detto molto. So che ha circa trent’anni e che fino ai ventidue ha nascosto la propria disforia ai suoi genitori, poi la fuga dal Brasile e l’inizio della transizione. Ora è tutta femmina, tranne i diciotto centimetri che la inchiodano ad Angel.     
– Hai mai pensato di operarti Anja? – le avevo chiesto, in un istante di confidenza.
– Certo meu amor, ma poi?       
– Poi saresti completa, almeno credo. 
– No Denise, sarei una puttana come tutte le altre.    
Lei è l’unica che mi chiama così, completando il mio nome.  
– Denis non è un nome adatto a una donna, e non è adatto a te. Te chiami Denise meu amor, para mim tu sei Denise.

Con me non usa mai la voce nasale e acuta che contraddistingue la sua personalità femminile, mi parla con il tono caldo e cantilenante di Angel, la sua voce vera, quella dei suoi pensieri. Anja ed io siamo diventate amiche un po’ alla volta. Ogni tanto mi chiedeva un passaggio, al termine della sua notte in strada e in quelle brevi chiacchierate abbiamo imparato la confidenza. Da quando siamo amiche, è diventato un rito mandarle un SMS per avvisarla che esco per consegne e così posso accompagnarla fino a casa. Vive in un alberghetto dignitoso in zona stazione e quando riesco, la accompagno fino al cancello e attendo che si richiuda la porta alle spalle. In stazione c’è sempre brutta gente.    
Te sono grata amor, tu non vuoi niente in cambio da me, sei gentile e basta. Non sono abituata.

Adoro il suo italiano ibrido, mi fa sorridere, come mi fanno ridere i suoi messaggi di risposta sgrammaticati e surreali tipo “arrivo sopito”, mentre la aspetto all’incrocio con via Fratelli Bandiera. Ho provato più volte a spiegarle che sopito vuol dire addormentato, ma è una battaglia persa.        
Quando la colorata ed eccessiva Anastasia, che fa rima con fantasìa, è a riposo, emerge il timido e introverso Angel, e di lui mi sono innamorata quasi subito.
Oltre alle notti, dove io mi rinchiudo in un capannone industriale a incassettare seppie da vendere al mercato del pesce e lei sale in auto con sconosciuti che la insudiciano, io e Anja abbiamo iniziato a condividere qualche ora del giorno, tempo sottratto al sonno e che spendiamo in qualche cinema pomeridiano o sorseggiando tisane, parlando di libri e di musica. Nonostante la giovane età, Angel è colto, intelligente e curioso. Colma il divario generazionale che ci divide con sensibilità, senza mai farmi sentire distante o troppo vecchia. Quando usciamo di giorno, Anja dorme, ed è Angel a mostrarsi. È lui che si concede, vestito sempre di nero, il cappello calato sugli occhi, senza trucco e l’aspetto di un adolescente emo. Anche la camminata diventa più sciolta senza il tacco dodici di Michael Kors a rallentare il passo.
Angel mi tiene per mano, mi sposta la sedia quando mi siedo, compra un fiore ai cingalesi che ci importunano mentre prendiamo il tè.    
– Fanno una vita schifosa. – dice, porgendo loro qualche moneta e scegliendo nel mazzo una rosa bianca.  
La settimana scorsa mi ha chiesto di andare al mare.
– Qui vicino c’è Jesolo, o Caorle. – ho risposto carica di entusiasmo.
– Siamo vicini al mare amor, ma è un mare brutto. Sporco.     
– Che hai in mente?    
– Croazia! Le puttane slave dicono che è bella ed è vicina. Ho trovato anche un buon residence.     

L’appartamento è piccolo e pulito, fronte mare. In una palazzina speculare, nell’alloggio dirimpetto al nostro, fin da subito abbiamo iniziato a osservare la vita di Sasha e Agnes. Lui ha la faccia tipica dell’est, tratti tagliati, netti, spigolosi, i capelli color topo, tanto brutto quanto invece Agnes è carina, morbida e dolce, luminosa come molte donne dell’est. Le cose cambiano però quando sorridono. Sasha ha un riso contagioso, che lo rende simpatico, quasi attraente, mentre i brutti denti di Agnes, le regalano dieci anni in più.

Stamane, al bar, mentre facevamo colazione, sono entrati anche loro. Ci hanno salutato con un sorriso e un cenno della testa.      
– Angel che si siano accorti che li stiamo spiando? – avevo detto, in tono ansioso.    
Lui è scoppiato a ridere. Era la prima volta che lo faceva. Ha i denti perfetti e gliel’ho detto.

– Tutta roba mia amor, niente debiti con banche –, e mi ha fatto l’occhiolino, toccandosi le tette schiacciate dalla fascia elastica.    

C’è ancora poca luce nonostante il sole sia tramontato. Nubi pesanti di pioggia si stanno avvicinando rapide. Il vento muove leggero le tende. Nel buio della nostra stanza guardiamo Agnes che sparecchia mentre Sasha le accarezza il culo.         
– Secondo me stanotte scopano. – Angel sorride furbo.        
Appoggio la testa alla sua spalla e lui mi lascia fare.   
– Hai un buon odore Denise. – mi stampa un bacio sulla fronte.       
– Anche tu Angel.       

Agnes va in camera e si cambia. Dopo un po’ lei e Sasha prendono la giacca. Lui la aiuta a indossarla. La bacia sulla nuca, spostandole i capelli. Per un istante rimaniamo entrambi col fiato sospeso, sperando in un cambio di programma. Escono.        
– Peccato, – dico – niente spettacolo erotico.  
– Vuoi che usciamo anche noi? – chiede Angel.         
Si dirige verso l’armadio. Lo apre. Dentro, non c’è traccia di Anja, nessuna scarpa col tacco, nessuna minigonna o top scollato. In bagno, i trucchi sono miei. Mi commuove la fiducia che ripone in me, mostrandosi senza difese.  
Usciamo. C’è un’aria quasi fredda che arriva dal mare. Il vento si è alzato portando odore di acqua agitata e pioggia. La linea di demarcazione tra il diluvio e la zona franca è sempre netta, anche se qualche goccia, ora, sta cadendo su di noi.  
Ci ripariamo in un bar. Il proprietario ci accoglie senza salutare, ci indica un tavolo e chiede cosa vogliamo. Nessun block notes, urla la comanda a una ragazzetta invisibile dietro al bancone che pronta esegue. Sul fondo del locale, vicino a un vecchio juke-box, c’è una tenda rossa. Un uomo grasso col sigaro spento in bocca si avvicina, solleva il divisorio mostrando un minuscolo cavedio, al centro, un albero triste in debito di sole. Una cupa luce viola mostra l’ingresso di un Hotel Casinò. Angel segue la direzione del mio sguardo, poi tuffa la faccia nel suo bicchiere di Cabernet.  
– Che succede? – chiedo, ingoiando una cucchiaiata di gelato al cocco.         
– Niente… – risponde.  Non mi guarda. Il suo disagio ora è evidente.
– Dai amica, dimmi che succede.        
Angel ha uno scatto irritato.   
– Che ho fatto? – insisto.       
Lui non risponde. Posa il bicchiere e si pulisce la bocca con un tovagliolo di carta verde.     
– Denis, qui sono amico, amico… non amica. Qui sono Angel. – Parla con voce naturale, senza urlare, ma sento che si trattiene. Nel pronunciare il mio nome corretto, Denis e non Denise, per un istante il tono acuto di Anja ricompare.
– Oh, scusa… – vorrei finire la frase, ma lui alza la mano ammutolendomi.   
– No amor, è colpa mia. Ho solo paura che a te piaccia più Anja. Ed io non l’ho portata qui con me.
C’è uno strano dolore nel suo sguardo. Una sofferenza che non comprendo e che mi lascia interdetta.
– Angel ho sempre pensato che preferissi essere definita donna… – biascico in mia difesa.
Si risiede di colpo allontanando il bicchiere di vino come se fosse veleno.    
– Angel, scusami… davvero. – Sono costernata, e non credo di afferrare esattamente cosa sta accadendo.
Si sfila il cappello che tiene sempre calato fino agli occhi liberando i capelli corvini e lunghi fino alle scapole. Non capisco questa sua reazione, penso sia eccessiva.        
La tenda rossa si sposta come la Muleta di un torero attirando il mio sguardo. È il dannato vento che arriva dal mare a muoverla. Intravedo la figura di Sasha che appoggiato al muro esterno del Casinò fuma una sigaretta. Ha il bavero del giacchetto alzato, la pioggia si è fatta più intensa, e il vento la sposta fin sotto la pensilina che lo tiene al riparo.     
Anche lui alza gli occhi e incontra i miei. Rimaniamo così a fissarci per qualche istante, immobili, mentre tutto attorno a noi si muove. Angel, il vento, la pioggia, le foglie dell’albero solitario in quel giardino interno, la tenda rossa, una donna anziana che ciabatta, tutto e tutti si muovono facendo rumore. Sasha ed io sembriamo due statue di sale. Un colpo di vento attacca la tenda sintetica al muro come se fosse velcro. L’ingresso del privé si apre. Il ciccione col sigaro esce. La porta semi spalancata mostra per un istante l’interno del casinò. Luci viola ovunque e Agnes che balla nuda su un tavolo. Un ragazzo le infila le dita tra le cosce poi se le lecca.      
Angel m’ignora parlando con un vicino di tavolo, fa il buffone e l’altro, l’estraneo, ha uno sguardo di scherno, di compassione e fastidio, lo sguardo degli etero quando guardano quelli come Angel o Anja. Mi alzo dalla sedia e lascio due banconote sul tavolo. Non piove più. Il vento mi appiccica i vestiti addosso e anche se l’aria è tiepida, sento freddo.        
Angel mi raggiunge, mi abbraccia.     
– Andiamo a casa meu amor. – mi sussurra. Si è rimesso il cappello.    
Lo seguo in silenzio. Intorno a noi, l’odore denso di asfalto bagnato.           
Ho voglia di parlare con Anastasia che fa rima con fantasìa. Ho voglia della mia amica. Chiederle come fa a vivere con tutto lo schifo umano che incontra. E lei è lontana, a casa.

[L’immagine è di Miguel Orós]

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