Storie oltre l'umano • parte uno
Una delle tappe del laboratorio di narrativa è un modulo dedicato alla scrittura dell’ambiente e del territorio: in questo modulo ci siamo sfidati a scrivere delle storie che non avessero come protagonisti gli umani, e nemmeno degli animali umanizzati. Scrivere storie che, invece, raccontassero di piante, animali, elementi naturali, ma anche case, strade o oggetti: qui pubblichiamo le prime tre.

Salsedine, di Mariagiovanna Postorino
Si stacca dalla schiuma di un’onda che quasi la sputa via e lei di colpo vola nel vento salmastro. Piccola, trasparente, non pesa nemmeno e sa di tutto il mare del mondo. Scivola tra scogli nudi, taglia l’aria e cade senza precipitare. Non è cielo e non è pietra. Rimane un istante, il tempo di essere appena.
Forse finisce su una roccia calda e il sole la brucia.
O invece accarezza piano le rughe sul guscio di una conchiglia, in mezzo a due piedi scalzi, tra le rocce. Una mano piccola raccoglie il guscio, le dita salate lo custodiscono fino a casa, lo posano accanto al letto, lo portano prima di dormire vicino all’orecchio, si sente la risacca di mille granelli. La carezza leggera evapora senza sparire, resta un cerchio sottile, pallido e asciutto, senza ombra. Nessun pensiero, nessun volere, solo minuscola presenza in minerale silenzio. Passa ma mai del tutto, si lascia respirare, invisibile ma non assente. Dell’onda non ha più il ritmo, solo l’odore liquido. Torna al mare con un lancio, a chi arriva più lontano, rotola per un po’ e poi ancora si stacca dalla schiuma bianca.
Talvolta si impiglia tra i capelli o ritorna un anno dopo come crosta su un boccaglio, non voce ma memoria. Altre volte, si fa scia tra lenzuola stese nell’aria di sera, le rincorre e poi scappa un poco, loro si fanno gravide vele e lei intorno. Si perde ancora, si assottiglia e torna sale trascinato quasi per sempre in una discesa al mare.
E ancora vola insieme a cento sorelle nel fiato del cielo.
Viaggia a oriente, increspatura invisibile, fino alla terra che arde e sibila. Cade ancora in un battito d’aria, danza intorno al cratere, spinta mentre l’isola esplode in lampo rosso e pietra viva. Rifrange la luce per farsi presto vapore. Ascende. Si fredda e si rimescola.
E ancora piove di nuovo in mare, ancora tra mille in bianca spuma.
Così, anche se finisce, sopravvive e ogni nuova goccia è battezzata nel fragore dell’onda con lo stesso nome di tutte le altre.
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Bouganville, di Silvia Messina
È rigogliosa la mia bouganville.
Era solo una piantina al vivaio, una delle tante in mezzo a una macchia colorata. Fiori bianchi, corallo o viola, in ognuna delle possibili sfumature; arbusti ancora sottili o già ben torniti, spinosi o lisci. L’ho scelta perché superava tutte in altezza e, sporgendo da quella tavolozza, creava disarmonia.
È cresciuta e ha trovato spazio in un grande vaso di coccio nell’angolo del mio balcone. La terra bruna ricopre e nutre le sue radici, un reticolo di canne spezza lo scirocco che soffia afa e granelli di deserto. Si è allungata fino a toccare il tetto e ricoprire il motore del climatizzatore. I suoi rami formano un labirinto intricato che a ogni primavera si ingentilisce di fucsia. Per qualche settimana si impone al mio sguardo sapendo però che i suoi petali cadranno a ondate scossi dalla brezza, planeranno sul balcone, sul basilico e il rosmarino. Non ho il coraggio di raccoglierli con scopa e paletta e di infilarli in un sacchetto, preferisco lasciarli volare via dalla ringhiera sulle terrazze di fronte, sulle macchine parcheggiate per strada, sugli ombrelloni del bar sotto casa.
È resistente la mia bouganville.
Non credevo sarebbe sopravvissuta ai lavori delle facciate; avrei volute ferire a morsi quelle mani che la trascinavano senza riguardo, che la strattonavano da una parte all’altra del balcone. Ho temuto che non respirasse impacchettata in un lenzuolo inutile che non l’ha protetta dai calcinacci. Per un po’ la polvere ha spento la lucentezza delle sue foglie e sbaffi di vernice hanno chiazzato i fiori. C’è voluto tempo per lavare via tutto.
Una mattina, era fine estate, ho trovato dei batuffoli bianchi aggrovigliati alle spine, appiccicosi, venivano via con difficoltà. Infestazione da cocciniglia è stata la diagnosi, quasi una condanna perché il parassita dal nome gentile succhia senza pietà la linfa dalle sue vittime. Stavo per perderla ma la mia bouganville è guarita, senza insetticidi o veleni.
Vive nonostante a volte le manchi l’acqua o ne abbia troppa.
Vive nonostante andrebbe potata, sfrondata dei rami secchi, liberata dai pesi inutili.
Vive con me da trent’anni sul mio balcone, il suo balcone, nella sua terra.
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Si può ancora piantare, di Elena Cicalini
L’ippocastano ci aveva messo vent’anni per diventare alto dieci metri. Ogni autunno i ricci a forma di pallina da tennis con le spine gli rimanevano tra le radici, al massimo rotolavano poco più in là. Rilasciavano castagne bulbose, diverse da quelle a goccia buone da fare arrosto o lesse. Qualcuno le chiamava per questo castagne matte.
Al momento di perdere le foglie, l’ippocastano le spargeva oltre il perimetro di sua competenza. Un’esuberanza costata liti e denaro ai proprietari del giardino in mezzo al quale era piantato. Il giardiniere, oltre a potare i rami e ripulire il giardino, era incaricato di raccogliere anche le foglie cadute nella proprietà del vicino. Una seccatura accolta come inevitabile.
Poi il giardino fu venduto, insieme alla casa di cui era pertinenza, e con lui l’ippocastano. La scocciatura delle foglie a casa del vicino non toccò ai nuovi proprietari. Intralciava il cantiere per la ristrutturazione. Il tronco finì tagliato in ciocchi e regalato come legna da stufa, il resto smaltito come rifiuto speciale. Dell’ippocastano rimane una castagna matta. Si può ancora piantare.
