Dal primo incontro di Casa d'altri: Diceria dell'untore, di Gesualdo Bufalino
di Sara Tuveri
«Fermati», gridavo «madre mia, ragazza, colomba», mentre sentivo il tozzo polpastrello del sonno che mi suggellava le palpebre bruscamente detumefarsi, dissiparsi in bolla di schiuma, in vischioso collirio di luce. Soltanto in quell’istante, riaprendo gli occhi, capivo d’avere ancora una volta giocato a morire, d’avere ancora una volta dimenticato, o sbagliato apposta, la parola d’ordine che mi serviva.
Diceria dell’untore, Gesualdo Bufalino
Diceria dell’untore era un libro che non conoscevo: la prima volta che ho sentito nominare l’autore, Gesualdo Bufalino, è stato durante la lezione di editing con Fabio Stassi, che lo descrisse come uno scrittore dallo stile barocco e un caso letterario degli ultimi anni del Novecento. Incuriosita fin da subito, ho inserito Diceria dell’untore in quello che mi piace definire lo scaffale immaginario dei libri che voglio leggere: in breve, una lista praticamente infinita. Grazie a Casa D’altri qualche mese dopo sono riuscita mettere il libro in cima a questa lista, ma soprattutto ho avuto la possibilità di confrontarmi con altri lettori.
Venne pubblicato per la prima volta da Sellerio nel 1981, vinse il premio Campiello nello stesso anno e divenne caso letterario, sia per lo stile particolare di scrittura, sia per l’età avanzata dell’esordiente: Bufalino, infatti, ha 61 anni quando pubblica la sua prima opera. Se non fosse stato per l’infallibile intuito di Elvira Sellerio probabilmente questo libro non avrebbe mai visto le luci della ribalta. Quando lo scrittore, allora ancora solo professore in pensione, curò l’introduzione di un volume fotografico su Comiso, fu lei ad accorgersi del potenziale, perché era certa che ci fosse un romanzo nel cassetto e aveva scommesso che sarebbe riuscita a pubblicarlo.
Appunto di un romanzo nel cassetto si trattava: l’autore gettò le basi dell’opera nel 1950, appena reduce dalla sua esperienza personale in un sanatorio del dopoguerra; nel 1971 seguì la stesura vera e propria e poi da lì fino alla stampa è stato un continuo lavoro di revisione del testo. Per questo motivo, il perfezionamento della lingua è certosino, tanto da far sembrare l’opera più un poemetto narrativo che un romanzo breve.
Come già accennato, il romanzo è in parte autobiografico: Bufalino si ammala di tubercolosi e nel 1946 viene trasferito al sanatorio La Rocca, sulla Conca D’oro, vicino Palermo.
La vicenda si svolge principalmente tra le quattro mura di questo sanatorio che viene raffigurato opprimente quanto una prigione. Ogni personaggio è costantemente accompagnato da questa presenza che viene delineata a tratti come inquietante e a tratti invece come consolatoria: la morte.
L’intera esperienza è raccontata mediante gli occhi e le riflessioni del protagonista, il quale «ha letto più libri che vissuto giorni» e il cui nome non verrà mai esplicitato. Gravitano intorno a lui gli altri personaggi: il Gran Magro, il medico a capo della struttura, che sarà protettore e grande avversario di partite a scacchi; e poi Marta, la ballerina che viene dal nord ed è «due volte intoccabile». Tra gli altri anche Luigi l’Allegro e Luigi il Pensieroso (soprannomi che richiamano L’Allegro, il Penseroso ed il Moderato di Milton), Angelo, Sebastiano, Giovanni, il colonnello e il frate; compagni di sventura che dopo aver combattuto la guerra si ammalano e si ritrovano bloccati insieme alla Rocca.
Il primo aspetto su cui soffermarsi è sicuramente la scelta di apporre in epigrafe la definizione presa dal dizionario di diceria. Il concetto sembra insinuare una scarsa credibilità dell’intera opera, un monologo di cui il lettore non può essere sicuro. Questo pensiero sostiene e dà corpo ai temi del sogno e della memoria, di cui il libro è impregnato. Lo stesso incipit è un sogno: i confini tra i ricordi della memoria e i ricordi dell’immaginazione sono sempre incerti. La modalità di narrazione è talmente carica di finzione scenica da sembrare un melodramma, gli stessi personaggi parlano e agiscono come se fossero su un palco. Ho realizzato, confrontandomi durante l’incontro, che ad alcuni lettori i ruoli e, in particolar modo i dialoghi, risultavano oltremodo costruiti e dunque falsi. Ma cos’è un racconto se non la narrazione di un ricordo, immaginario o realmente vissuto, plasmato e riprodotto attraverso la lente del proprio punto di vista?
La malattia è il tema portante del romanzo: è curioso però, come la tubercolosi in sé non venga mai nominata direttamente, ma sempre parafrasata e spesso semplicemente indicata come «il male». In contrasto, per rimarcare la gravità dei momenti fondamentali della narrazione, vengono inserite alcune descrizioni delle manifestazioni fisiche del morbo con una minuzia di dettagli tale da risultare cruente.
Bufalino incastra i suoi personaggi in un limbo da dove sembrano bloccati senza possibilità di andare avanti o tornare indietro. Da un lato la guerra ormai finita lascia in eredità la malattia e la privazione dell’unico obiettivo che era rimasto; e dall’altra parte si contrappone la paura di ricominciare da capo e dunque ritornare al mondo dei vivi ricostruendo quello che si è perso. Essendo tutti malati non si sentono parte della vita che rinasce, ma si percepiscono come diversi e isolati dagli altri: preferiscono limitarsi ad assistere invece che partecipare in modo attivo. Questo stato d’animo è talmente radicato in loro da creare una sorta di microcosmo che li esclude sempre più dal mondo esterno e cementa la loro consapevolezza di essere un gruppo. A questo punto la rabbia li trasforma e forti del loro potere di untori, che li fa sentire come spargitori di infezione e veleno, si lasciano scivolare in un delirio di onnipotenza.
Inoltre, sembra quasi che tra loro venga suggellato un patto silenzioso, quello di non sopravviversi l’un l’altro: una volta entrati nella cerchia si è per forza condannati. La guarigione non è ammessa, ma caratterizzata come una vera e propria trasgressione, un tradimento. I pensieri del protagonista saranno di conseguenza popolati di un forte senso di colpa fin dai primi accenni di remissione della malattia.
Durante l’incontro è stata sollevata la questione della lingua barocca e artificiosa utilizzata come mero strumento di autocompiacimento narcisistico dello scrittore. Per quanto mi riguarda, lo stile dell’autore è figlio del momento storico in cui venne incominciato il libro, e anche del continuo lavoro di revisione durato all’incirca trent’anni. Al contrario, sono convinta che Bufalino non potesse scrivere che così: lo stile è innato e forgiato dalle esperienze. Il tempo di stesura è rivelatore, sono stati necessari molti anni per riuscire a rivivere l’episodio in ogni suo minimo dettaglio e per renderlo la migliore versione di sé stesso. Solo per merito di questa dedizione incessante è giunto fino a noi, in tutta la sua magnificenza, un grande capolavoro del Novecento.
Sara Tuveri si è laureata in Lingue e culture dell’Asia e dell’Africa a Torino; ha lavorato e vissuto a Malta per alcuni anni, ora è tornata in Italia, dove ha frequentato il percorso di formazione in editoria di minimum lab.
Casa d’altri è una rubrica di minimum fax in cui scrittori e librai raccontano i libri di altre case editrici; da giugno è anche un gruppo di lettura: editor e scrittori guidano alla lettura di grandi classici. Il prossimo appuntamento sarà a ottobre con Alessandro Gazoia, il libro di cui si parlerà è Austerlitz di W.G. Sebald.
[Foto di Wendy Scofield]