Fosca Navarra nasce il 28 aprile 2000 a Napoli, dove vive e studia lettere classiche all’Università Federico II. Ha un blog, foscanavarra.it, dove inserisce racconti, poesie e recensioni di romanzi esordienti.
Nel novembre 2020 un suo racconto, La gabbia dei tuoi sospiri, è stato pubblicato sulla rivista COYEmag.
Nel 2021 è stata selezionata tra i semifinalisti del Premio di Poesia Wilde.
Il racconto che segue è uno di quelli su cui abbiamo lavorato nel modulo di riscrittura e editing del laboratorio di narrativa con Carola Susani.
Oggi più di ieri
Per via Filangieri, in quella mattinata di autunno opaco, non c’era che un unico fiore in cammino tra le schiere dei passanti. Quella rimembranza della primavera procedeva a passo svelto su un paio di gambe d’avorio: gli uomini che le passavano accanto voltavano il capo come gufi, dimenticando di essere mariti finché non si sentivano tirare per il braccio dalle consorti.
Tutti, per invidia o desiderio, non potevano fare a meno di guardarla. Nel museo della gente, Mariuccia era l’opera d’arte più apprezzata.
Lei però continuava a camminare con indifferenza, a petto in fuori e il mento ben sollevato, mentre portava con una certa aria di fierezza la falda ampia del cappello color tortora. L’azzurro d’acquerello dei suoi occhi cercava tra la confusione il luogo dell’appuntamento. Mentre sgomitava tra le varie comparse della sua esistenza, intravide Giovanni.
Giovanni la attendeva accanto al gran caffè Cimmino, la schiena poggiata al muro e il profilo dritto che si disegnava contro l’indefinito dei palazzi grigi e della folla superflua. Mariuccia si scrollò dal corpo la coltre di nervosismo che la avviluppava e affrettò il passo.
Come se l’avesse percepita dal suo profumo, Giovanni si voltò e rimase per un poco a guardarla, le labbra dischiuse e gli occhi sperduti nella delizia.
“Mariù, ma non vi fate mai vecchia?” domandò accostandosi alla sua guancia per salutarla.
Lei si lasciò baciare sulle guance e inspirò col naso, quasi a volergli rubare l’odore che anni prima l’aveva blandita e inebriata fino al delirio. L’odore delle guance rasate e di una certa brezza marina che attraversa soltanto i mari del Sud.
“Son passati otto anni soltanto” rispose.
“Otto anni! In tutto questo tempo possono succedere tante di quelle tarantelle…”
Mariuccia inarcò le sopracciglia e inclinò la testa con vaga aria di biasimo.
“Me par che ci sono accadute.”
A quelle parole, Giovanni impallidì di colpo e le rivolse un sorriso esangue. Poi fece un gesto con la mano verso l’entrata e disse: “Mariù, dopo di voi.”
La donna gli passò accanto ed entrò nella caffetteria. Lui la seguì, la afferrò con delicatezza per le spalle e la fece voltare. Gli occhi dell’uomo se ne stettero un poco a vagare lungo le ciglia di lei finché lo sguardo non divenne insostenibile.
“Avete bevuto già, a quest’ora?” domandò lui, fiutando con le narici acutissime l’odore di alcolico che veniva dalle sue labbra.
Mariuccia annuì, si levò il cappello dal capo e si sistemò i capelli con la mano.
“A esser sincera,” disse “oggi più di ieri.”
Si sedettero e ordinarono un paio di caffè. Mentre Mariuccia osservava i fiumi di colore cittadini, Giovanni teneva le mani congiunte sul tavolo; poi l’occhio gli cadde sul luccichio dorato dell’anello che recava all’anulare e ritrasse in tutta fretta le braccia.
“È pien de gente stamane” disse la donna.
“Vorrà dire che oggi nessuno tiene genio di faticare” osservò il suo interlocutore.
Mariuccia sfiorò il vetro accanto a lei e sorrise.
“A Napoli par sempre che nessuno travagia.”
I caffè furono serviti ed entrambi li zuccherarono. Lei se ne accorse e le parve insolito, perché lui lo beveva sempre amaro. Quando gli domandò spiegazioni circa quel cambiamento d’abitudine, lui si limitò a fare spallucce.
Mariuccia diede un sorso, staccò la tazzina dalle labbra e domandò: “Non me lo volete dir perché non è importante, o perché è importante?”
“Mariù, che vi devo dire? Si vede che la vita mi si è fatta amara.”
Lei bevve ancora e fece un cenno d’assenso con la testa.
“Vi capisco bene. Ormai siamo tutti fantasmi della guerra.”
Per diversi istanti il vociare della caffetteria colmò le loro menti delle parole altrui. Alla loro destra, una coppia di anziani aveva appena nominato una certa Luisa, partita per l’America e mai più vista. Nell’udire quel nome, Giovanni sobbalzò.
“Mi ero scordato. Come sta Luisa?” domandò lui.
Lei alzò gli occhi al soffitto e inspirò profondamente. Aveva un’improvvisa voglia di schiaffeggiarlo.
“La Luisa sta ben. Dovreste vedere che bella picinna è diventata…”
Giovanni volse lo sguardo verso le tende verdastre e domandò con voce commossa: “Che ha pigliato da suo padre?”
Mariuccia si scrutò le dita sgombre di promesse e rispose: “La boccia dura.”
Giovanni scoppiò in una risata di malinconia.
“Fatemela conoscere, Mariù.”
La donna sgranò gli occhi e rispose con voce esitante: “Non me par momento. Paghiamo?”
“Il conto!” esclamò Giovanni al cameriere; poi afferrò la mano di Mariuccia e bisbigliò: “È pure figlia a me, o ve lo siete dimenticato?”
Mentre Giovanni consegnava il denaro per i caffè, la sua accompagnatrice fissava lo splendore della fede sul suo anulare. Lo stomaco le si rimescolò dentro come grano in una macina.
“Siete voi, Giovanni, siete voi che l’avete dimenticato.”
Mariuccia si alzò, raccolse la borsetta e uscì a passo svelto dalla caffetteria.
“Mariù, ma dove andate?” gridò lui per la strada, tanto forte che buona parte dei passanti di via Filangieri cominciarono a fissarlo.
“A casa, da mia figlia! Mia, mia figlia!” esclamò lei di rimando, senza voltarsi.
In mezzo alla calca, l’uomo cercò il braccio dell’antica amante e vi si aggrappò in maniera disperata.
“Mariù, per l’amore di Dio! Ho fatto solo sbagli con voi, con la criatura; ma voi siete meglio di me. A voi il cuore funziona più del mio, lo sapete.”
Lei, con ancora l’espressione bellicosa in viso, fece un gesto con la mano per invitarlo a proseguire il discorso.
“Voi lo sapete” continuò Giovanni “che non sono cattivo. Nulla di quello che ho fatto aveva l’intenzione di fare del male a voi e a Luisa! La vita mi ha travolto, non ho fatto scelte perché non le potevo fare–”
“Non cercate scuse ora.”
“Ma quali scuse e scuse! Sto cercando di dirvi che sono debole, e tenete ragione se lo pensate. Io non ho scelto, a me è tutto capitato; però stavolta sto scegliendo di riparare, pure se soltanto–”
“È tardi, Giovanni!” gridò infuriata Mariuccia.
Mentre diversi passanti si intrattenevano nelle loro vicinanze per gustarsi lo spettacolo, i due litiganti provavano il disagio di essere lì a discutere con tanto di pubblico in ascolto.
“Stiamo facendo un bordello di pazzi, ci stanno a sentire tutti” mormorò lui mentre si guardava intorno “Fatemi vedere la criatura, Mariù, ve lo chiedo in ginocchio.”
“Non senza una buona ragione” sibilò lei.
L’uomo si stropicciò il viso in una mano e diede un sospiro, poi si accostò all’orecchio della donna e disse: “Andiamo a casa vostra, vi ci accompagno con l’automobile. Se mi lascerete conoscere Luisa, io…”
“Voi, cosa?”
“La riconoscerò come figlia mia. Questo volete, non è vero?”
Il cuore di Mariuccia si assopì per qualche istante e si risvegliò con un violento battito. Lei stentava a credere che quelle parole fossero state pronunciate da Giovanni.
“Voi non siete serio, non–”
“Parola d’onore” disse l’uomo portandosi una mano al petto per suggellare la promessa.
La donna sollevò il capo e annuì, le labbra serrate nel tentativo di trattenere l’emozione.
“Ben, andiamo. Sto in via Foria.”
Giovanni allora le offrì il braccio e lei vi si aggrappò esausta, come avrebbe fatto un passero sul ramo dopo otto anni di volo solitario.
Quando arrivarono in casa di Mariuccia, li accolse un silenzio tale che potevano udire lo sfrigolio d’ali dei moscerini che volteggiavano attorno a una cesta di frutta. Erano rimaste però soltanto un paio di mele e una pesca ancora verdognola e acerba.
Accanto alla cesta di vimini, sulla tovaglia di bianco liso, Mariuccia aveva lasciato diversi ritagli di stoffa, il metro da sarta e un cuscinetto cosparso di spilli. Dall’altra parte della tavola compariva una tazzina di caffè con una goccia seccata sull’orlo e una bottiglia di liquore.
“Non pensavo di avere visite” si giustificò la padrona di casa.
“Vi fate problemi che non esistono, Mariù” rispose lui.
La donna si tolse il cappotto e lo sistemò sull’appendiabiti; poi afferrò quello che Giovanni le offriva e appese anche quello.
“Dov’è Luisa?” domandò l’ospite guardandosi intorno.
Mariuccia fissò per un attimo le tende fluttuanti del balconcino, trasportata da pensieri che stentavano ad assumere forma; poi si diede un colpetto sulla fronte.
“La Luisa l’ho lasciata a zugà con la Giacinta.”
“Zugà, Giacinta?”
“Giocare, giocare. Con la figlia della vicina.”
“E puoi bussare? La voglio conoscere, Mariù.”
Mariuccia sospirò. Aprì la porta, uscì sul pianerottolo e fece cenno all’uomo di rimanere dentro casa.
“Ah, mi devo pure nascondere adesso?” esclamò lui con tono di fastidio.
“Dovresti esser capace, l’hai fatto per otto anni. E poi, la signora Coppola è una ciatella.”
Giovanni sollevò un sopracciglio con aria interrogativa.
“Vuol dir che parla assai. Ora rimani dentro, così busso.”
Ad aprire la porta fu però Giacinta. Giovanni, sbirciando, intravide la figura di una bambina robusta in gonnella e calzettoni bianchi. Non gli assomigliava, e neanche a Mariuccia.
“Dov’è la Luisa? Siete sole in casa?” domandò la donna.
“Ma quando mai, signò” rispose l’altra mentre giochicchiava con una delle sue trecce bionde “Quella mammà sta facendo i servizi, ha detto a me di aprirvi. Luisa ve la chiamo?”
“Sì, per favore, e dille di venire un attimo dentro.”
Mariuccia si voltò e gettò un’occhiata fulminea a Giovanni, che a sua volta sgattaiolò in casa. Il suo cuore però era rimasto lì, vigile e martellante, sul pianerottolo.
“Mamma, mi volevi?” domandò una voce ben più vispa della precedente.
“Sì, vieni a conoscere una persona.”
“Quale persona? Ma noi stavamo–”
“Giocherai dopo” ribattè seria Mariuccia.
“Ma è una persona importante?” domandò Luisa.
Mariuccia esitò a rispondere e diede un leggero colpo di tosse. Giovanni aveva lasciato la porta aperta e continuava a origliare.
“Sì. È una persona… vieni e basta, Luisa.”
La donna e la bambina rientrarono in casa propria e trovarono l’ospite in piedi contro lo specchio, intento a passarsi le mani in volto e sistemarsi i capelli.
“Signor Pellegrino, voglio presentarvi mia figlia.”
Giovanni si voltò di scatto e le raggiunse all’uscio. Luisa era lì, un angelo di bambina dai capelli bruni e folti e gli occhi di un verde chiaro e felino. Lo guardava, il mento in aria e il nasino rivolto all’insù, curvato in una maniera impeccabile.
“Mamma, chi è questo signore?”
Giovanni provò ad aprire bocca per presentarsi ma non gli uscì neppure un fiato. Una lacrima gli scivolò su un angolo della bocca tesa in un sorriso troppo grande per essere di semplice cortesia. Luisa se ne accorse e tirò un lembo del vestito di sua madre.
“Mamma, ma perché-”
“Luisa, questo è un mio amico. Gli ho parlato molto di te e voleva conoscerti.”
“Ma parla?” domandò ancora la bambina.
“Sì, Luisa” disse finalmente lui “non preoccuparti, non sono muto. Tua mamma mi ha detto che hai otto anni. Fai la scuola, ti piace?”
La figlia di Mariuccia sorrise a mezza bocca e annuì.
“Mi piace assai. Qual è il vostro mestiere?”
La padrona di casa le diede un colpetto sul braccio per farla tacere.
“Luisa, ma ti sembra il caso di–”
“Io sono nell’Aeronautica” rispose Giovanni, che aveva ancora gli occhi lucidi.
“Ah, e vi piace?” domandò Luisa.
“Mi piace assai.”
L’uomo disse così, poi si frugò nella tasca e ne cavò una manciata di lire e le offrì alla figlia.
“Tieni, ti compri un gelato più tardi. Se la mamma è d’accordo.”
“Ma questi sono un sacco di gelati!” esclamò Luisa, e rivolse alla madre uno sguardo che pareva voler chiedere il permesso.
“Va bene, va bene. Ora torna a giocare dalla Giacinta. Io e il signor Pellegrino abbiamo delle faccende di cui discutere” disse Mariuccia.
“Sì, vado. Arrivederci e tante grazie, signor Pellegrino!”
Padre e figlia si strinsero calorosamente la mano.
La porta si chiuse.
I due antichi amanti rimasero in piedi l’uno di fronte all’altra, ingoiati per intero dall’umida caligine esalata dal balcone che Mariuccia aveva dimenticato dischiuso. Alla parete, un grosso orologio spostava sordamente le sue lancette, trascinando via con sé il tempo e la polvere. Mentre gli istanti trascorrevano, loro non accennavano a muovere alcuna parte del corpo all’infuori delle pupille; e quel che percepirono di chi gli stava dinanzi era di natura ben diversa dalle impressioni che avevano avuto appena si erano incontrati. Si videro improvvisamente prostrati dalla vita, invecchiati di una senilità buia e priva del riverbero dei radi tempi di gioia; anzi, quegli stessi eventi del passato parevano scavare sui loro volti delle rughe che quella mattina non esistevano, o che forse erano state soltanto ben celate dai rispettivi turbinii emotivi. In quel momento si guardavano bene per la prima volta, nelle contrazioni delle sopracciglia e nei tremolii della mascella. Deposto ogni simulacro d’orgoglio e fascino, non rimanevano loro che le sembianze svuotate dalle sconfitte personali e dai drammi senza importanza. Erano questo, null’altro che fogli strappati a un giornale e trasportati fino al sordido di una pozzanghera; e per un poco non ebbero altri sentimenti da manifestarsi, se non una reciproca compassione espressa dal velo inumidito dei loro sguardi.
“Da quanto siete sposato?” domandò infine Mariuccia.
Giovanni gettò un’occhiata alla fede e si portò d’istinto la mano dietro la schiena. Lei se ne accorse e storse la bocca.
“Non mi dà raggia, sapete. Da quanto–”
“Tre anni, Mariù. Sono sposato da tre anni.”
La padrona di casa si morse il labbro e una lacrima piovve dritta sulla sua guancia.
“Ah, capisco. Siete felici?” domandò ancora, e per nascondere l’espressione di sofferenza andò a rassettare sul tavolo. Lui si voltò e la raggiunse.
“Felici, che parola grossa! Ci sopportiamo, Mariù, ci vogliamo un poco bene quando non abbiamo di che lamentarci; ci appiccichiamo per le questioni stupide e qualche volta alziamo la voce. Di solito però ci serriamo nei nostri silenzi, al punto che a volte ci pare strano ricominciare a parlare. Forse ci piace tanto, quell’indifferenza reciproca, che non la vorremmo mai abbandonare. Non ci capiamo, Mariù: io e Laura non abbiamo mai parlato la stessa lingua e ci facciamo bastare la nostra poverissima comunicazione e qualche sparuto bacio della sorte per continuare a campare.”
Mariuccia sistemò la tazzina sporca nel lavello e mormorò: “Ti piace far l’amore con tua moglie?”
L’ospite si appoggiò al ripiano della cucina, di fronte a lei, e fece un sorriso amaro.
“Parola grossa anche questa. Ci ricordiamo dei nostri doveri coniugali un paio di volte alla settimana: capisco che è il momento perché indossa la camicia da notte buona, quella con gli orli di pizzo. Mi guarda, guarda la porta; poi mi fa una carezza dura, senza affetto. Io faccio un cenno con la testa e lei mi bacia con le labbra serrate più della sua anima. Poi facciamo l’amore a luce spenta, così ognuno si può immaginare di farlo con un’altra persona; lo facciamo senza provare niente all’infuori di un piacere meccanico e che prima o poi ci viene pure a noia. In quei momenti vorrei che finisse presto, così da poter finalmente dormire. Tocco il suo corpo, quel corpo molle e di un freddo mortale, e tocco il silenzio che la avvolge tutta: allora capisco che vorrebbe dormire pure lei, senza di me.”
L’antica amante provò un improvviso senso di disperata impotenza. Avrebbe voluto scoppiare in lacrime, spazzare via con una mano tutto ciò che ancora rimaneva sulla tavola, gridare finché la voce glielo avesse consentito. Però rimase in silenzio, una mano sul ripiano e l’altra mollemente adagiata lungo il fianco. Eppure desiderava ancora conoscere la somma dell’ingiustizia che li aveva fatti ammalare di infelicità, e bramava ogni maligno particolare perché sentiva verso se stessa un inderogabile dovere di offrire la schiena al flagello di quelle rivelazioni.
“Avete dei figli?” domandò senza ricambiare lo sguardo del suo ospite.
“Una… una figlia soltanto.”
“Capisco. E come si ciama?”
Giovanni trasalì e si nascose il viso tra le mani.
“Non chiedetemi quello che non vorreste mai sapere, Mariù.”
Lei si accostò al suo viso ancora celato dalle mani, gli accarezzò i polsi con delicatezza; poi, come per l’improvviso sopraggiungere di una nube sul suo capo, il colorito roseo del suo incarnato trasmutò in un grigio livido.
“Non è quel che ho appena pensato, Giovanni. Non è quel–”
“Luisa! Si chiama Luisa, come la vostra, la nostra Luisa!”
“Descostate le mani dalla faccia” gli ordinò Mariuccia, tutta tremante.
L’ospite scoprì il viso e fece qualche passo indietro.
“Per favore, Mariù, parliamone. Io non l’ho fatto per intenzione, per farvi uno sfregio, no! Nulla del genere: è capitato, come tutto, tutto il resto! Ho sbagliato, ma io, il nome piaceva a Laura e–”
Un ceffone colpì la guancia di Giovanni. La padrona di casa si guardò il palmo arrossato, lo passò tra le pieghe del vestito e scoppiò in singhiozzi.
L’uomo si passò le dita sui segni brucianti della propria colpa ed emise un gemito lungo che gli morì in gola fino a strozzarsi. Una lacrima amara gli scivolò lungo la narice, seguita dalle altre come massi spinti giù per una discesa.
“Io non conosco amore, Mariù, non so più che vuol dire! Io non sono più capace di fare il bene, perché non ne ricevo nemmeno. Ma sapete cosa mi fa male di questo manrovescio?”
“Nulla!” gridò lei con voce rotta dal pianto “A voi non importa di nulla!”
Giovanni continuava a versare lacrime, la schiena incurvata e il petto serrato tra le braccia. Nel vederlo indifeso e misero come un figlio di mendicanti, Mariuccia fu travolta da un moto di compassione e gli cinse le spalle in un abbraccio, gettò il viso nell’incavo del suo collo e gli mormorò una manciata di flebili scuse.
“Mariù, Mariù! Lo schiaffo mi ha fatto male all’anima! Il matrimonio con Laura, Santiddio, si doveva fare, voi lo sapete. La mia famiglia… ma lasciamo stare. Ora non è importante. Ma voi, voi mi amate ancora? Guardatemi, e ditemi che non mi amate più. Ne siete capace?”
Gli antichi amanti si guardarono negli occhi limpidi di tribolazione. Lei dischiuse le labbra, ingoiò la saliva e scosse la testa. Non ne era capace. Lui le accarezzò la pelle madida di uno zigomo e fece un sorriso di gioia.
“Oh, vi amo anch’io! E molto, moltissimo. Non si contano sulle dita di una scolaresca le volte in cui vi ho immaginata al mio fianco, mentre cercavo di pigliare sonno. Sapete, la vita mi si è fatta amara davvero: l’unica mia consolazione, l’unica quiete nella gelida devastazione della mia esistenza è quella che ricevo dal ricordo che–”
Non finì a parlare, Mariuccia aveva cominciato a baciarlo con un trasporto tale che le lancette dell’orolgio avevano smesso di rincorrersi, e la tazzina nel lavello non aveva più bisogno di essere sciacquata, e la caligine si era addensata in un’immenso oceano di luce e delirio di sensi, ancora, di nuovo, come accadeva un tempo.
A porre fine al bacio fu Mariuccia stessa. Si separò dall’antico amante come al risveglio dopo un sogno troppo vivido; gettò lo sguardo altrove, le guance rutilanti e le ciocche di capelli sulla nuca animate e stravolte dalle mani di lui.
“Forse non è che un errore, forse–”
“Non conosco errore che possa essermi più caro” la interruppe l’uomo “e sono certo che non ne conoscete neppure voi.”
“N-non ha alcun senso, voi avete moge, io, la Luisa–”
“La Luisa, come dite voi, è a giocare dalla figlia della vicina…”
“La riconoscerete, vero?”
“La riconoscerò, ve lo prometto…”
Giovanni mormorò queste parole mentre con una mano le sbottonava con delicatezza il vestito.
“Oh, Giovanni, perché mi fate questo?” domandò lei, pescando i sospiri e le parole affannate da un calderone di sensazioni tanto potenti da privarla della capacità di pensare.
“Perché vi amo! Conoscete altra circostanza in cui io possa dimostrarlo? La vita ci ferisce, ci depreda di ogni apparizione di gioia; la vita ci violenta, Mariù, senza darci tempo di repliche. E allora che fare? Non ci resta che questo, questo sprazzo di Paradiso in mezzo a un cielo scuro di patimenti.”
La donna si accostò al suo collo per baciarlo, poi cominciò a sbottonargli la camicia alla cieca, cercando i bottoni da strappare all’asola come si cerca un appiglio, come le rocce sporgenti per lo scalatore che vuole arrivare a ogni costo alla cima.
“Ora siamo felici, ora, ma più tardi…” mormorò all’orecchio di Giovanni.
Lui liberò la sua amante dall’ingombro dell’abito e la guardò con indosso soltanto la biancheria intima. Il tempo era passato anche per lei, perché le sue cosce erano meno sode e i suoi fianchi recavano le fatiche della gravidanza di quell’unica figlia, dell’unico solco duraturo che il loro amore poteva mai lasciare al mondo. Era però, agli occhi di Giovanni, ancora l’incarnazione del desiderio: ciò che più adorava del suo corpo era ancora lì, come la voglia sul suo seno destro, quella minuta nebulosa color cannella rubata a remote galassie.
“Ora siamo felici, Giovanni, ora, ma…” ripetè lei, ma si interruppe quando l’amante posò le labbra sul suo seno e le accarezzò la schiena, liberandogliela da ogni fardello. “Se è così, Mariù” sussurrò lui “che Iddio mi chiami a sé non appena vado via…”