Il potere si fonda sulla menzogna: «Il Consiglio d'Egitto» di Sciascia a Casa d'altri
di Jania Sarno
Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere […]Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i vostri avoli e trisavoli? Sono discesi a marcire nella terra, né più né meno che come le foglie, senza lasciare storia.
Il Consiglio d’Egitto, Leonardo Sciascia
Nel romanzo Il Consiglio d’Egitto, pubblicato nel 1963 in posizione intermedia fra i più noti Il giorno della civetta (1961) e A ciascuno il suo (1966), Leonardo Sciascia impernia tutta la vicenda sul concetto di storia come impostura: la manipolazione delle fonti – gli strumenti apparentemente oggettivi del lavoro dello storico – è il motore dell’intreccio.
Siamo nella Sicilia di fine Settecento, raggiunta dai venti della Rivoluzione francese. Dal fronte dell’ordine costituito si distacca il giovane giurista Francesco Paolo Di Blasi, che organizza una congiura giacobina. Protagonista del romanzo è il frate cappellano maltese Giuseppe Vella, un numerista rionale per il gioco del lotto che concepisce una “grande impostura”: far passare un codice arabo conservato a Palermo – una semplice vita di Maometto – per un testo di antica storia sicula (Il Consiglio di Sicilia); corromperne il manoscritto, con lingua maltese scritta in caratteri arabi; pubblicarne la supposta traduzione e poi quella di un immaginario nuovo testo (Il Consiglio d’Egitto), in modo tale che le rivelazioni storiografiche destabilizzino il potere baronale ed ecclesiastico siciliano.
Vella, che era già in qualche modo un traduttore (di sogni) come consulente per la “smorfia”, è davvero un grande personaggio: falsario nell’intimo, concepisce e persegue tutto il suo piano, anche nelle sue implicazioni politiche, per il puro gusto del creare falsi. Questo movente trascolora nel piacere del ricatto, poi nel gusto infantile del dispetto e infine, quando Vella si autodenuncia dell’impostura, si ridefinisce come esibizione del virtuosismo della propria fantasia: il culmine è la dimostrazione di genialità letteraria.
La vicenda dell’avvocato Di Blasi cospiratore giacobino e quella dell’Abate Vella manovratore e falsario sono genialmente intersecate, sul filo del paradosso. È infatti proprio a partire dall’intuizione che il sedicente traduttore è un impostore, che il Di Blasi concepisce l’idea della congiura: se la menzogna trionfa, più forte della verità, e se la società è menzogna – è di per sé impostura, giuridica, letteraria, umana – e in particolare lo è quella siciliana, allora… ecco lo scatto verso cose ben più avventate di una questione di filologia. La rivoluzione.
Le vicende dei due uomini convergono, a insaputa l’uno dell’altro, in un serrato gioco d’implicazioni, che nascono dalle idee: ci sono tante idee che corrono nel mondo, ma il verso delle cose è un altro, violento e disperato.
La narrazione è essenziale e densa, spesso ironica, sicché gli improvvisi passi poetici (di estrema bellezza quello su i limoni e la neve) sorprendono, con il loro straniamento. Spesso un quadro viene risolto con pochi tratti, in una magistrale brevità che pur fornisce tutte le coordinate della scena e, lanciando agganci verso ciò che segue, stimola la curiosità del lettore, il desiderio di proseguire in una lettura che – per l’ambientazione e la tematica – sarebbe senz’altro potuta essere a rischio di interruzione. La souplesse del narrare mette in maggior risalto i valori d’impegno civile che Sciascia – autore per eccellenza etico – tende continuamente ad esprimere. Per contro, la descrizione della tortura – pratica che devasta l’immagine di Dio che è nell’uomo – è di una durezza e di un’efficacia ributtanti, che lasciano col voltastomaco. Addirittura Vella, nel suo disimpegno, sente l’infamia di vivere dentro un mondo in cui la tortura e la forca appartengono alla legge.
Abbiamo parlato di questo romanzo con Fabio Stassi, in un incontro del gruppo di lettura Casa d’altri, ricco di spunti e osservazioni. Vari interventi hanno messo in luce, nel mutare delle forme, l’attualità dei problemi etico-politici sollevati dal romanzo di Sciascia: il mondo del fake può ben specchiarsi nella mistificazione qui illustrata e qualunque società del privilegio può essere letta, come era peraltro intenzione dell’autore, alla luce del contesto siciliano del XVIII secolo. Si sono creati fra noi due schieramenti, simpatizzanti per Vella e suoi oppositori, pur convenendo sul fatto che Vella e Di Blasi sono due figure complementari, nel loro voler sovvertire, pur partendo da moventi lontanissimi, il potere costituito. Vella come un proto-politico di oggi, dunque, ma anche personaggio più umano, che parla delle nostre stesse miserie quotidiane ed esprime a suo modo vitalità e allegria.
Una partecipante, che ha vissuto a Malta, ha evidenziato la puntualità con cui Sciascia descrive l’opera di corruzione del testo e la potenza dell’evocazione dell’isola; è stata messa in luce anche la componente della sicilianità, all’interno di quel “doppio” che le due isole rappresentano.
Si è parlato della tortura come tema centrale. È stato dato grande rilievo anche al paradosso della debolezza della verità – poco appariscente, poco immediata – rispetto all’arrogante forza della menzogna, di più facile presa, e non solo da un punto di vista etico-politico, bensì nelle più interne implicazioni: cosa c’è, nell’invenzione del vero? Ci siamo quindi interrogati sul senso finale di questo libro: la ragione è ritenuta da Sciascia perdente e, in piena Guerra Fredda, c’è forse un messaggio pessimistico proprio sulla possibilità del cambiamento e delle rivoluzioni? O nell’empatia finale, a distanza, fra Vella e Di Blasi si vuol dare, nel segno del legame fra le persone, una fiducia alla storia? Il letterato sopravvive al rivoluzionario? Oppure: comunque insanabile è il disincanto sull’uomo?
Fabio Stassi – interlocutore sempre sensibile e molto attento all’altro – ha sottolineato come questo straordinario romanzo, che effettivamente nessuno di noi conosceva, non sia riuscito a “pervenire alla coscienza” dei lettori e non rientri quindi nello “Sciascia percepito”, pur costituendo uno spartiacque nella sua vicenda intellettuale e creativa: ciò che sta dietro ai suoi romanzi coevi più noti. L’abate Vella assume il concetto che il potere si fonda sulla menzogna e scrive la sua contro-storia. Qual è dunque lo Sciascia più “sciasciano”? E, ancora: siamo davvero davanti a un romanzo storico, oppure potremmo meglio parlare di romanzo filosofico – o psicologico, addirittura? La letteratura nasce dove il territorio del reale può aprirsi a tutte le possibilità.
Jania Sarno è musicologa, antropologa della musica e scrittrice. Insegna Storia della musica in Conservatorio. Ha frequentato il nostro laboratorio di narrativa.
Casa d’altri è il gruppo di lettura di minimum fax dedicato ai libri pubblicati dalle altre case editrici. Qui trovi i dettagli sull’appuntamento di gennaio dedicato a Friedrich Dürrenmatt.
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