Imparare a scrivere: da Paltò, la newsletter di Gaia Donati

Imparare a scrivere: da Paltò, la newsletter di Gaia Donati

Paltò è la newsletter sul multilinguismo nella scrittura e nella lettura a cura di Gaia Donati, che a minimum lab ha frequentato diversi corsi, fra cui Creare e gestire una newsletter di Letizia Sechi.
Pubblichiamo un estratto dal primo numero, in cui si parla di corsi di scrittura e delle differenze di approccio fra i corsi in lingua inglese e quelli in italiano.


Imparare a scrivere

Appunti dai corsi di scrittura creativa che ho seguito in italiano e inglese
di Gaia Donati

Negli ultimi anni ho seguito corsi di scrittura per la narrativa in inglese e in italiano, e questo mi ha dato modo di riflettere sulle differenze che ho percepito, in termini di impostazione e stile dei corsi, tra due lingue e due culture, nel mio caso quella britannica e quella italiana. Come cambia l’esperienza di un corso di scrittura a seconda della lingua, e che osservazioni si possono fare?

La ricerca

Il primo corso di creative writing l’ho seguito alla University of the Arts London (UAL). All’epoca avevo appena iniziato a scribacchiare narrativa breve, leggevo molti romanzi e avevo una curiosità crescente per la scrittura in quanto pratica espressiva. Quel corso resta, a oggi, una delle esperienze più divertenti che abbia mai fatto. Ho letto e scritto di tutto, e avrei voluto che il corso non finisse dopo tre mesi.

Tempo dopo, nell’era nascente del vediamoci-su-Zoom, ho ripensato a quella bella esperienza e deciso di riprovare: negli anni, ho seguito altri due corsi di scrittura in inglese con la Faber Academy e la Professional Writing Academy, che all’epoca sviluppavano insieme i loro percorsi; a questi si sono aggiunti quattro corsi in italiano – con minimum lab, Scuola del Libro e Cattedrale – tutti più brevi e tematici di quel primo, memorabile incontro con la scrittura di narrativa.

Letture durante i corsi

Nei corsi in inglese la maggior parte delle letture è stata di autori contemporanei, a volte neanche particolarmente affermati. Gli scrittori scelti erano prevalentemente anglofoni, anche se non tutti erano britannici o statunitensi. È stato molto piacevole leggere autori giovani e sperimentali, scoprendo quante forme diverse può assumere la narrativa. Tuttavia, mi chiedo se le poche letture in traduzione siano state frutto di un caso oppure riflettano un certo sguardo sulla produzione letteraria globale.

Nei corsi in italiano ho notato un’attenzione speciale nei confronti di testi e autori considerati come dei riferimenti importanti. Per esempio, Ernest Hemingway è spuntato fuori ripetutamente e in due corsi è stato citato “Hills Like White Elephants” (in italiano, ”Colline come elefanti bianchi”), un suo racconto presentato come un esempio magistrale di forma breve e densa in termini di sottotesto. In alcuni corsi le letture in traduzione, specialmente di narrativa inglese e statunitense, sono state predominanti. Arrivando dai corsi in inglese, ho preso abbastanza male questa scelta: ma come, mi fate leggere Hemingway e Eudora Welty? Ma fatemi conoscere altri autori, magari anche italiani, di cui so poco o nulla! Giusto per chiarire: il mio problema non era la lettura in traduzione, ma la dominanza di testi con ambientazioni anglosassoni nelle quali mi ero già immersa ampiamente. Altri corsi hanno proposto autori italiani del novecento, e allora mi chiedo: come sarebbe stato aggiungere qualche lettura contemporanea allo studio di Elsa Morante o Cesare Pavese?

Pratiche di scrittura

Nei corsi in inglese era raro che ci fossero indicazioni prescrittive, del tipo “Questo si fa e questo non si fa”. Mi è parso che gli insegnanti cercassero di non essere mai cattedratici e accettassero tutti gli esperimenti di noi corsisti. L’approccio mi è sempre risultato molto democratico: se avete qualcosa da dire allora scrivete, scrivete! La tecnica si può imparare e affinare. Con me è stato un approccio vincente, perché mi sono sentita libera di pasticciare e sperimentare. Di tutti gli esercizi che mi sono stati assegnati, quello che mi è rimasto impresso come nessun altro si chiamava “The first and last line assignment“. Durante la lezione, ognuno di noi aveva scritto alla lavagna due frasi, una per l’incipit di una storia e una per la sua chiusura. L’esercizio consisteva nello scrivere un racconto che si aprisse con una di queste frasi e si concludesse con un’altra. Sounds like fun, huh?

Nei corsi in italiano mi è rimasta l’impressione che la proporzione fra teoria (ecco come si scrive) e pratica (ora tocca a voi, corsisti) sia stata spesso leggermente sbilanciata in favore della teoria. Le analisi dei testi degli autori scelti erano attente e mi hanno reso una lettrice migliore: spaccavamo in quattro molti capelli, ma per questo a volte capitava che si riducesse il tempo dedicato ai nostri esperimenti di scrittura. C’era anche l’occasionale “Questo (non) si fa”, a volte in riferimento ai testi dei corsisti. Un esercizio che ho trovato davvero utile è stato riscrivere un brano tratto da un libro pubblicato cambiandone il registro, un aspetto tecnico importante che avevo sepolto tra le mie vaporose memorie scolastiche. Questo esercizio mi ha fatto notare e apprezzare più attentamente le scelte lessicali di alcuni autori.

Scambi di opinioni

Ho percepito un’attenzione particolare a non fare commenti apertamente negativi in tutti i corsi che ho seguito in inglese. Il feedback era costruttivo e incoraggiante. In alcuni casi l’insegnante lo ha annunciato all’inizio del corso, “Qui si analizza ma non si dà addosso”, ma ho la sensazione che questa regola della casa fosse già implicita per la maggior parte dei partecipanti. All’inizio ho apprezzato questa politica cavalleresca, ma dopo un po’ confesso che mi sarebbe piaciuto il commento diretto, per la serie, no, questa scena non funziona. Non cercavo la rissa però a volte mi sono detta, qui a forza di essere tutti gentili non si impara e la scrittura resta quella che è.

Nei corsi in italiano non mi pare ci siano state risse, ma sicuramente ricordo commenti esplicitamente critici e negativi. Per me è stata una ventata di benvenuta spontaneità, ma è chiaro che poter essere molto diretti impone all’insegnante un ruolo di moderazione non sempre facile.

Partecipanti

A differenza dei corsi in italiano, dove non ricordo corsisti non madrelingua, nei corsi in inglese mi sono spesso trovata in ottima compagnia. Rimpiango di non aver chiesto agli altri non-madrelingua: che ne pensate di questa esperienza? Nei primi corsi in inglese mi sono sentita a mio agio, probabilmente perché vivevo in Inghilterra da tempo ed ero immersa in quella lingua e quella cultura. Sapevo di scrivere in inglese da straniera, ma era parte del divertimento (e dell’esperimento).

Quando ho lasciato la Gran Bretagna mi sono riavvicinata all’italiano, sia nelle letture che nelle scritture. Nei corsi in italiano mi sono sentita culturamente più vicina a casa (e grazie), ma ho faticato molto con la questione della voce. A volte c’era, forse, e a volte no. In inglese non mi ero nemmeno mai posta il problema: scrivevo e basta. In italiano c’era troppo rumore di fondo che mi distraeva. Su un aspetto però ho capito presto che in italiano potevo avere vita più felice che in inglese – i dialoghi. Leggendo alcuni autori anglosassoni, ho avuto la netta sensazione di non poter sviluppare lo stesso orecchio per le conversazioni.

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Gaia Donati pensa in italiano, a volte scrive in inglese, si tira su in francese, spesso impreca in tedesco. Per lavoro si occupa di comunicazione scientifica e per diletto cura Paltò, una newsletter sul multilinguismo.

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