Memorie inventate di personaggi celebri

Memorie inventate di personaggi celebri

Nella scorsa edizione del seminario dedicato alla scrittura autobiografica a cura di Danilo Soscia abbiamo chiesto agli allievi di scrivere dei racconti che in poche righe racchiudessero la storia, narrata in prima persona, di un personaggio noto, realmente esistito o di finzione, e poi li abbiamo letti, editati e riscritti insieme.
Eccone alcuni.


Di consiglieri ce n’è pochi, fra queste mura. Di confidenti, ancora meno: ogni serratura è spia, ogni muro parla, nel palazzo. Ma di persone di cui mi posso fidare non c’è nessuno. Non ho confidenti su questa terra, né in questo tempo. Per questo, l’unica salvezza che mi è rimasta è quella di sedermi al tavolo a immergere i pensieri nel calamaio.

La verità che oggi scrivo è per voi, sorelle, protagoniste da migliaia di anni dello scempio di essere femmina. Se mi guardo allo specchio, vedo quello che tutti vedono: i miei fianchi sono dolci come l’Arcadia, il mio collo quello affusolato dell’idria, e il mio dorso è vasto come il toro bianco che sedusse Europa. Sono una dea, o Afrodite non mi avrebbe fatto rapire da un principe aitante, schiavo delle sue stesse mani. In quello specchio ci siete anche voi, piccole donne venture, perché io sono voi, e voi siete me, Elene di Troia in nuce. Io come voi, e voi come me. Siamo il nostro stesso quadro, l’immagine derubata da chi ne reclama il possesso. Elena di Troia, l’incarnazione della femmina. Sono il vulcano che tutto accoglie e racchiude al suo interno, la marionetta degli dèi, la martire della gelosia, il machiavello della frode. Ma il vulcano, care sorelle, non può tacere per sempre. Non dimenticate le mie parole, non dimenticate la mia voce, perché questa voce non oggi, non domani, ma forse un giorno verrà salvata. Perché la mia voce sarà la vostra voce.

Elena di Troia raccontata da Esther Bondì


Mi vorrebbero tutto il tempo a corte, a dipingere, come se fossi un burattino senza carne, come uno che non ha niente di meglio da fare che soddisfare le loro fantasie. Mi terrebbero come una tigre in salotto. Il mio è un rifiuto netto e di sostanza, perché il problema reale sono i soldi, che quando ci sono, sono troppi, ma quando finiscono succede assai in fretta. C’è il Rosso con la febbre e le strane convulsioni, e ha bisogno delle sue medicine, la Locandiera che mi incalza con vini essenziali, capaci di far accadere di tutto nelle notti di eterna avventura. Poi, una piccola mancia di qua un giro in carrozza di là e le monete non ci sono più. Cinquanta soldi in cambio di due mesi di lavoro, per un dipinto di cinque metri quadrati e mezzo per un totale di  undici ore al giorno di lavoro.

Fortunatamente adesso, le giornate sono lunghe e posso risparmiare sulle candele. Insomma non proprio un quadretto da sala da bagno. Come minimo il doppio dovevano pagare, se non il triplo. Poi ci sono anche le spese dei materiali: questo mese la scala nuova. L’ho fatta fare su misura perché con quell’altra sono caduto due volte, di cui l’ultima un polso slogato, e oltre a vedere tutti i santi che dipingo in carne ed ossa, sono dovuto stare fermo per tre settimane. E chi me le paga tre settimane di malattia? Quelle pure sono a carico mio.

Che nausea pensare che le mie sorti, e non solo le mie, sono nelle mani di uomini bestiali, che dall’alto, seduti sulle loro poltrone lucide agiscono il mondo. E che bisogno di strapparmi la pelle e tutta la faccia, nel sapere che proprio quegli stessi demoni io voglio compiacere. Che schifo.

Dall’altro canto ora non posso fermarmi. Essere avido, per la mia carriera futura, potrebbe risultare controproducente. Già mi dicono che i miei personaggi sono troppo umani, ma quelli non li posso cambiare. Posso invece mediare. L’obiettivo è mantenere un profilo basso per scongiurare la fatidica onta:  “Se continui così, morirai di fame”.

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, raccontato da Gabriella Cosmo


E questo involucro di carne, peli e denti acuminati – la mia condanna alla solitudine – non è tutto ciò che sono.  Sono anche il re buono, amato e venerato,  disposto a sacrificare sé stesso per salvare chi ama.

Mi avete osservato, studiato e incatenato. Mi avete esposto, inchiodandomi tutti gli sguardi addosso. Per voi sono il Mostro e null’altro: i vostri occhi sgranati, le vostre labbra che sibilano al vicino, lo raccontano bene. Sono la bestia da legare con catene di acciaio e da osservare con disgusto. Anche quella donna mi guardava così la prima volta sull’isola, riconosco quel sentimento: il sollievo che si prova nel non essere così. Ci ho guardato dentro e mi sono visto orribile. Deforme.

Deforme, cari miei spettatori, è la lente con cui osservate me e tutto ciò che vi sta davanti. Quello che considerate spaventoso, i nativi considerano maestoso. Dite di volerci dare la ricchezza della civiltà e ci consegnate la miseria di una razza che non sa guardare oltre.

Voglio andar via ora, liberarmi di questi pezzi di metallo che mi solleticano i polsi. Morirò, piuttosto, ma non mi lascerò sopraffare da voi. Questa non è la mia storia. Questo non è il vostro show.

King Kong raccontato da Sabrina Costa


Voglio avere tutto e tutto è a portata di mano. Come i pennelli e i colori l’attimo prima di iniziare a lavorare, quando la tensione irrigidisce i muscoli e la mente è tesa nello sforzo di raggiungere un’immagine lontana.
Allora chiudo gli occhi e respiro a fondo, avidamente, come se fossi scampato ai gorghi di un mare oscuro, e il sangue che poco prima martellava le tempie e i polsi si fa man mano più calmo.

È solo quando sento che ho di nuovo il controllo apro gli occhi e la vedo: la polvere che fluttua nel sole del primo mattino. E ritrovo il chiacchiericcio e il suono familiare degli attrezzi della mia bottega, caldi e rassicuranti come una coperta. Mi avviluppo volentieri in essa, e una pace si irradia nelle mie membra. Le braccia fluttuano nella luce, e mentre dipingo mi sento trasportare da quel sottofondo come se fosse una melodia e io un danzatore.

Questo continuo alternarsi di tensione e appagamento si deposita sulla tela che si fa a un tempo specchio e testimone. L’esplosione della vita che va incanalata per generare altra esplosione nel petto di chi guarda. Luce, aria, carne. Sangue.

Raffaello Sanzio raccontato da Daniela Gervasi


Sono sempre stato famelico di conoscenza e al contempo esuberante nel mio modo di cercarla.  In maniera quasi bulimica, trangugio qualsiasi occasione si presenti, lasciando che prenda vita nelle sue forme più antiche ma a volte, finanche orribili. Le quali, puntualmente, vengono aborrite da chiunque io incontri, pronto a declinare sin da subito la candidatura di un mio pensiero, che si è sempre fatto custode di un sapere più arcaico e tuttavia opaco agli occhi di molti. Proprio costoro, che per anni mi hanno circondato, si son permessi di fare della mia voce più intima un monito d’allarme, da evitare a tutti i costi. Cosicché i miei sogni altro non sono se non il riflesso di un’orrenda bruttezza.

La Bestia raccontata da Christi Marcì


Nota per i becchini

A breve trafiggerò Claudio, agonizzerò per il veleno ed esalerò l’ultimo respiro circondato da applausi. Il sipario si chiuderà e voi tornerete qui a seppellirmi, finché qualcun altro non mi trarrà dalla tomba per farmi ripercorrere i soliti, dolorosi, tragici dubbi.

Ho indagato, tramato, ma soprattutto, dubitato. Dubito di ogni cosa: del fantasma di mio padre, della lealtà dei miei cortigiani, metto in dubbio persino l’amore di Ofelia. Ma finisco per fare sempre le stesse scelte, con le stesse conseguenze. Semino morte tra chi mi è più caro, mi circondo di dolore per poi morire a mia volta. Ogni volta. Non sono diverso da un pugno di teatranti prezzolati che inscena La Morte Di Gonzago alla corte di un regicida; inseguo i miei stessi passi senza poter cambiare direzione. Può l’incarnazione del dubbio avere sempre una sorte così certa?

Sono stanco, la mia storia è nota. Cosa volete sapere da me ancora? So che non posso sottrarmi a questo infinito balletto, concedetemi solo quattro parole da incidere sulla mia lapide, sputate senz’arte né rima ma che siano veramente mie e non dell’archetipo che incarno. Voi fatemi solo la cortesia di riportarle:
Morire per dormire, forse sognare.
E allora non svegliatemi
se non per una stramba farsetta
o una commedia a lieto fine.

P.S. Ricordatevi di riseppellire anche Yorick. Ho scordato il suo teschio da qualche parte nel quinto atto.

Forzatamente vostro,

Amleto

Amleto raccontato da Fabrizio Matetich

[L’immagine di copertina è della National Portrait Gallery di Londra]

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