L’autrice
Anna Chiara Ferioli
È nata nel 1999 e vive a Bologna.
L’editor
Francesca Romana Belli
Classe 97, è una ragazza di Roma laureata in Informazione, editoria e giornalismo. La sua vita ruota attorno ai libri e al cinema e spera, un giorno, di poter vivere delle sue passioni.
Il racconto
Primavera Sacra è uno dei racconti nati dal laboratorio di narrativa (edizione 2022) e poi rivisto, come gli altri, in un laboratorio editing con gli allievi del percorso di formazione in editoria.
Primavera Sacra, un racconto di Anna Chiara Ferioli
So bene perché ci avete coperto la testa, quel giorno. Non è che perché tu hai visto la luna più volte di me e ormai ti sei bruciato la faccia a forza di stare davanti a un falò, allora io sono un idiota. Questa storia non ha senso, vecchio. Io non credo nella via che dobbiamo percorrere, né nella nostra guida: io credo solo nella perdizione. Ma mica quella divina. Io credo nel perdersi, capisci? Credo che ci perderemo nei boschi. Allora chi raggiungerà le pianure, chi si prenderà la briga di costruire città? Forse sarà lo stesso Marte a farlo, o il suo picchio sacro. Spero di non essere io, vecchio. Io ne ho abbastanza di questo viaggio, e ne ho abbastanza delle pianure, ancor prima di averle viste. Non solo: ne ho abbastanza anche di queste montagne. Ho sempre saputo che me ne sarei dovuto andare, e questo mi è stato sufficiente per non affezionarmi a nessuno di voi. Questo però non vuol dire che io abbia voglia di farmi guidare da un volatile. Scommetto che se tu avessi dei figli, non li lasceresti mai partire giù per le montagne a inseguire un picchio. Scommetto che troveresti un altro modo.
Sai, qui è proprio come a casa: il cielo dà colore alle cose. È tutto uguale: rocce, sassi, sassolini. Pendii, rami, cespugli. Sono sempre gli stessi. È da sempre che io e te ci aggiriamo qua intorno, guardando e basta, senza cercare nulla. Ovunque andavamo, era sempre lo stesso posto. Così, a volte mi dimentico di essere in viaggio e ritornano i miei vecchi pensieri.
Non volevate che ci fidassimo nemmeno del nostro senso dell’orientamento. Dimmi, vecchio, ci credi davvero così tanto negli dèi? Gli affideresti tutto?
Se è veramente così, avresti dovuto dirmelo chiaramente. Perché non mi hai detto: “Fidati di Marte, amico mio. Ti guiderà con le sue piume e ti sosterrà con la sua lancia.” Negli ultimi tempi, invece, quando il giorno della nostra partenza era vicino, ripetevi soltanto: “È un dio potente”. “Il dio più potente di tutti”, aggiungevi. Allora dimmi, perché ti ho visto piangere quel giorno?
Ci svegliamo con i solchi che il terreno irregolare ci lascia sulle guance, con lividi e graffi che non avevamo notato il giorno prima. Ti sembrerà incredibile, ma non stiamo seguendo nessun picchio. D’altronde, non ne abbiamo ancora visto uno. Scegliamo la strada che ci sembra più facile. Se dovessimo seguire per davvero quell’uccello, non riusciremmo mai a scendere da queste montagne.
Oggi abbiamo passato la giornata a scendere lungo un pendio ripido e irto di rocce bianche. Quando siamo arrivati in fondo, abbiamo trovato uno di noi, morto da ore. Nessuno l’aveva visto cadere.
Era un gruppo numeroso, il nostro. Per questo avevate quell’aria così sollevata, mentre ci preparavamo a partire: eravamo abbastanza perché voi, sollevati dal nostro peso, poteste sopravvivere.
Ora che siamo in viaggio, mi rendo conto che non saremmo potuti restare insieme comunque. Che siamo tanti, tutti voraci, così simili alle bestie che incontriamo. Persino tra di noi ci sentiamo in troppi. Ci prendiamo a pugni per ogni cosa. Muoversi in gruppo è una fatica, anche negli spazi più ampi. Eppure, spesso avanziamo come un’unica creatura.
In ogni caso adesso siamo molti di meno. Non credo di doverti spiegare nulla: sai bene come muore la gente in queste montagne. Scommetto che ne hai viste tante anche tu, di cose così. Di sangue impolverato, di pelle martoriata dalla roccia. Ecco. Qui è lo stesso.
Una frana ha ucciso sei di noi. Li abbiamo lasciati là sotto e siamo scappati, prima che ricominciasse.
Questa sera abbiamo pregato: per i morti e perché ci venisse rivelata la strada da seguire, in modo da poter evitare altre sciagure come questa. Ci siamo schierati in ginocchio, rivolti verso un grande castagno, mentre i bagliori del fuoco ci rendevano figure rossicce e tremolanti. È stato piuttosto ridicolo. Ho visto una ragazza che pregava muovendo le labbra, ma mi è sembrato che lei non stesse recitando ad alta voce insieme a noi. Teneva i palmi delle mani rivolti verso l’alto, e gli occhi spalancati sul cielo, senza neanche vederlo. Aveva il terriccio del bosco sotto le unghie, e diversi tagli insanguinati sul viso. Pregava e pregava, cercando di toccare la volontà di Marte e il nostro futuro, tentando di fondersi col bosco. Ma era ovvio che non ci sarebbe riuscita. Era proprio quel suo pregare disperato che rendeva evidente quanto fosse inutile. Avrei voluto farla smettere.
Tutte queste preghiere mi hanno dimostrato solo una cosa: ci sentiamo tutti in colpa, perché non stiamo facendo quello che ci avete ordinato. Non stiamo ascoltando Marte, che raggiunge il sole con la sua lancia, colui che guida e che col suo elmo raccoglie i pensieri più scuri. E noi dovremmo seguirlo non come si segue un comandante, ma come si può seguire solo un dio: ad occhi chiusi.
Ma non riceviamo segni. Nessuno ha ancora visto un picchio, né in cielo né tra gli alberi. Inoltre, è diventato quasi impossibile mantenere una direzione in questi boschi.
È per questo che te ne andavi da solo a fare le tue offerte, vecchio? Ti arrampicavi su quei vecchi pendii perché lui facesse un’eccezione per noi esuli? In modo che, anche se non avessimo seguito la Via, saremmo stati comunque protetti?
Stamattina siamo ripartiti. Nessuno parla più, ormai. Tengono tutti lo sguardo fisso sui rami degli alberi.
Ho fatto un sogno: su un prato trovavo un uccellino appena nato.
Io sonnecchiavo, sdraiato lì accanto, e lui si metteva a pigolare. Allora aprivo un occhio per osservarlo. Poi mi svegliavo del tutto e provavo ad accarezzarlo, mentre lui tremava, facendo più rumore possibile col fiato che aveva in gola, aprendo e chiudendo i grandi occhi. Mi giravo verso di lui e lo raccoglievo con le mani a coppa. L’uccellino si faceva silenzioso, e io provavo ad alzarmi. Solo a quel punto mi accorgevo che ci trovavamo sul fondo di un dirupo, e che io avevo le gambe spezzate.
Ne abbiamo visto uno, vecchio. O meglio, l’abbiamo prima sentito perforare il legno, un suono fuoriuscito dai nostri desideri più sciocchi. Ci siamo guardati intorno, con la paura di non riuscire a trovarlo; e invece era proprio lì vicino, sopra un basso ramo alla nostra sinistra. Quando infine l’ho visto, non ho provato nemmeno un po’ di sollievo. Mi è solo sembrato che avesse creato in me una consapevolezza irreparabile. Siamo rimasti immobili per minuti interi, aspettando. Poi è volato via. Ci siamo messi a correre tutti insieme, in tutt’altra direzione rispetto a quella che avevamo scelto. Io l’ho perso di vista, ma quelli davanti a me continuavano a correre. Abbiamo attraversato il bosco come una mandria di cavalli, inciampando e arrancando sul terreno dissestato. Poi i primi si sono fermati di colpo. Il picchio era sparito, e noi eravamo usciti dal bosco. Ci siamo ritrovati su un’altura rocciosa. Sotto di noi, oscurate a tratti da ampie nuvole grigie, si estendevano in tutte le direzioni piccole montagnette ondulate, verdi e marroni. Qualcuno ha provato a contarle, ma io ti dico che era impossibile. Sembravano seguire un andamento preciso, regolare; e tra di loro si aprivano lisce valli attraversate da acquitrini, piccoli fiumi, terra brulla, in un insieme di colori diversi, fino all’orizzonte. Siamo rimasti lì un pezzo, come animali davanti a un tempio, il vento che faceva sbattere i nostri stracci. E poi, tutti abbiamo pensato al picchio. Io pensavo: non è che in quel piccolo cuore…
Questa sera festeggiamo.
I superstiti del nostro gruppo sembrano essersi risollevati. Credono – e, in un certo senso, lo credo anch’io – che il peggio del viaggio sia ormai passato. Sono passati giorni da quando abbiamo visto il picchio quella volta. Da allora, il procedere in mezzo a questa sterpaglia mi è diventato insopportabile. E ha cominciato a fare sempre più caldo. Un’aria pesante ti si infila a forza nel petto mentre cammini e ti schiaccia il respiro. Ma avanzare è diventato molto più facile; non so proprio come io abbia fatto a cadere. Ero rimasto un po’ indietro, convinto di aver visto qualcosa tra gli alberi. Mi sono allontanato di qualche passo dalla strada, pensando, lo ammetto, che fosse comparso un altro picchio. Ho messo il piede nel punto sbagliato e non sono riuscito a rallentare la mia discesa. Quando mi sono fermato avevo la gamba sinistra incastrata tra queste due rocce. Sotto di esse c’è una fenditura nel terreno. Sono qui da qualche ora, ormai: è quasi buio, e non sento più gli altri da tempo. So che adesso il viaggio ha per tutti un’importanza che non ha mai avuto prima. Forse, una volta arrivati, la sentiranno sempre addosso, pensando di trovarsi lì per un motivo. Forse hanno già cominciato a parlarsi come se condividessero un destino comune; ma io me li immagino arrivare e agire e forse persino disperdersi, privi di legami, consapevoli solo del proprio presente. Come abbiamo sempre fatto.
Sento del sangue scorrermi lungo la gamba incastrata, sospesa nel vuoto. Sono contento che tutto questo sia capitato qui, in questo luogo, che sembra uno dei tanti angoli delle solite, anguste montagne che io e te conosciamo.
Sento dei rumori: sono lupi.
Ti ricordo bene, vecchio. Ti ricordo sulle sponde del lago, quello racchiuso nel cerchio di montagne scure. Nemmeno un albero nei paraggi, e una fine ghiaia tutto intorno. Era uno dei punti più alti che raggiungevamo. Quando il cielo era coperto, l’acqua era di un blu profondo, senza riflessi. Tu ondeggiavi come la cima di un albero mentre parlavi. Ci riparavi entrambi dal vento, non so come. Eri sempre serafico.
Un lupo si sta avvicinando a me, alto e scuro, il passo che segna il terreno con forza. I suoi occhi brillano come scudi, i suoi denti sono punte di lance; la pelliccia è un’armatura di ferro.
Sai, vecchio, avevi proprio ragione: questo è il dio più potente di tutti.
Primavera Sacra: ricorrenza rituale di origine arcaica, praticata poi da diversi popoli dell’Italia antica, che comportava la fondazione di nuove colonie. Veniva celebrata a seguito di difficoltà come carestie o pressione demografica per favorire la migrazione su altre terre, che avveniva grazie alla guida di un animale sacro al dio Marte.
[Foto di Marek Szturc su Unsplash]