I meccanici non sono fate: storia di un esordio letterario
di Fabrizio Matetich
Nelle librerie, gli esordi si portano dietro una promessa di novità, una tentazione di gusto. Una nuova opera che sta sullo scaffale o nella vetrina digitale di un e-commerce come un dolcetto in pasticceria, grazioso e confezionato nella sua copertina colorata, minimale, simbolica o in stile fotografico. Magari stretto in una fascetta, una recensione a corredo che lo accompagna come farebbe il bigliettino con una cortesia per noi, gli ospiti, invitati a prendere parte al farsi di un oggetto che nasce estraneo ma con la promessa che finirà per appartenerci.
Un esordio è inevitabilmente qualcosa che prima non c’era e adesso c’è, che inizia a esistere all’interno del panorama letterario. Un punto di partenza, per il lettore. L’inizio. Che è però un punto d’arrivo per chi l’ha scritto. La fine. Se lo leggi, decolla. Se lo scrivi, atterra.
Nello scarto fra il decollo e l’atterraggio di un esordio mi pare ci possano stare due domande che sorgono, in momenti differenti, tanto nella mente di chi si accinge a scriverlo quanto in quella di chi si accinge a leggerlo.
Ma come si fa un libro?
Soprattutto, dove si fa?
È certamente impossibile vivisezionare la composizione esatta di ciascun libro, scomporne la storia in unità minime fatte di percorsi, incontri, traiettorie, spunti, ispirazioni, esperienze, influenze. È invece possibile, se non probabile a giudicare da come ne scrive lei stessa, affermare che per Piatti Rotti, romanzo d’esordio di Esther Bondì (con l’accento mi raccomando, che l’autrice ci tiene) un pezzetto di questa storia è un’officina.
Officina è la metafora che sceglie minimum fax per dare nome al suo laboratorio di scrittura creativa: una grande stanza virtuale piena di meccanici che si affannano dietro a pneumatici e motori, candele e carburatori. Con l’unica differenza che le automobili attorno a cui questi meccanici armeggiano sono proprio le loro, con la speranza di affidarne poi le chiavi ad altri, una volta usciti.
Officina sta anche nel nome dell’indirizzo mail da cui Esther Bondì risponde ai nuovi meccanici, distribuendo date, orari e consigli come dadi, connettori e chiavi inglesi perché per mettere nuovi modelli di auto su strada c’è bisogno di tutta la collaborazione possibile.
Certo, dentro l’officina di minimum fax ci sta pure un meccanico con la tuta più sporca, l’occhiaia più solcata. Di motori ne ha visti, smontati e rimontati tanti, ci ha messo mano per farli girare un po’ meglio, un po’ più forte. Tiene già le sue auto che viaggiano per la strada, forse potrebbe pure smetterla, quella tuta macchiata d’olio, lasciarla appesa al gancio ad afflosciarsi, sedersi comodo alla guida e scorrazzare appresso alle creazioni sue. Invece sta ancora lì, con un paio d’occhi sgranati e la voce che quando si entusiasma romba come la marcia alta scalata in fretta. Gira tra le auto, si infila sotto le carene – stringi di qua, svita di là, questo pezzo cambialo, questo tienilo, che è bello così – consiglia. E gli altri meccanici gli vanno dietro: provano, smontano, scombinano, sparpagliano gli strumenti. Qualcuno ogni tanto ci si fa male, si bruciacchia un pochettino le dita, che il motore è il cuore di queste auto e a volte si fa caldo da scottare. Rischi del mestiere: imparare a maneggiare la propria materia.
Quindi, fatto? Porto un’idea o un’esperienza di vita in un laboratorio di scrittura creativa e ne esco con un esordio in mano?
No.
Tutto questo non basta.
Occorre tenerlo fortemente in testa: non basta.
I meccanici non sono fate, anche se a volte piacerebbe loro saper trasformare le zucche in carrozze.
Esther Bondì che torna a presentare Piatti Rotti nel contesto del laboratorio di scrittura di minimum fax, a un anno di distanza dalla sua esperienza come corsista, dimostra proprio che quello che si fa con l’olio di gomito e la cassetta degli attrezzi è solo una parte del percorso. Una scintilla nel motore esisteva prima di entrare nell’officina e, una volta uscita, l’automobile non si mette in moto da sola né tantomeno si vende da sola, sono serviti altri incontri, altri passi. È servito Giulio Perrone Editore. È servito Antonio Esposito.
Ciascun passo però, per quanto non sufficiente da solo, si rivela necessario nel modo e nel tempo in cui è stato compiuto. Ed è così che, quando Esther Bondì in videoconferenza risponde alle domande dei lettori parlando della lingua, dei luoghi, del tempo, dei personaggi, di quanto del suo vissuto personale ci sia (o non ci sia) in Piatti Rotti, riecheggiano nelle teste degli altri meccanici passati per l’officina temi come svuotare le cantine, fammi sentire la tua voce, tieni il tempo, hai paura del buio e tante altre tappe di un’esperienza condivisa da tanti che però al contempo è stata solo sua. L’ha riempita con le bombe che saziano la pancia di Anna, la sua protagonista, con i periodi frammentati come i ricordi, con i paesaggi fatti di case passeggere. Case con le gambe, come quella in copertina.

Infatti, dire che Piatti Rotti sia un romanzo incentrato sull’uso della lingua è vero, ma riduttivo.
Certo, colpisce subito la sintassi franta, scarica di orpelli di costruzione. La prosa, bambina negli accostamenti di significato, gioca non solo con le rime e le assonanze ma anche con lo spazio sulla pagina, con una divisione in capitoli non dichiarata, lasciata al bianco della pagina che prende la funzione musicale di un silenzio che scandisce il ritmo. I periodi sono affilati, pieni di schegge. Pungono però la sensibilità del lettore perché sono l’espressione diretta dell’esistenza frantumata della protagonista, Anna.
L’architettura linguistica serve a restituire l’immagine un personaggio smarrito, che cerca di appigliarsi disperatamente a un principio di salvezza impossibile da trovare negli sconvolgimenti della sua storia familiare. Allora, Anna si fa forza da sola. Evolve, fa esperienze tipiche dell’adolescenza, si costruisce da sé, come può, però la lingua che l’accompagna, almeno lei, rimane ostinatamente aggrappata a quel principio di fanciullesca contrazione che rende tutto denso e immediato. Anna, che perde acqua da tutte le parti, alla fine trova il suo principio di salvezza proprio nell’atto creativo della scrittura e, in perfetto contrappunto, la prosa delle ultime pagine si scioglie. Dopo essere stata bombardata dalle memorie e dalle conseguenze delle azioni degli altri personaggi, finalmente è lei a prendere in mano il suo vissuto e metabolizzarlo attraverso la narrazione. È lei a chiedere: ti ricordi di quando…
E infilati in questi ragionamenti, anche la presentazione in un attimo è già un ricordo.
Al termine dell’incontro, Esther sorride, ringrazia, svanisce. Dietro di lei le scie dei saluti e tutti i partecipanti che si disconnettono. Rimane quasi l’impressione che non ci sia stata differenza con la fine di un normale incontro del corso a cui partecipava solo un anno fa: si ascolta qualcuno leggere un proprio testo, si fanno domande, si dibatte, ci si appassiona. Quella a cui abbiamo assistito, però, è la presentazione di un esordio compiuto e soprattutto pubblicato, che è esistito nella cornice del laboratorio e ora sta sugli scaffali delle librerie.
In questo scarto di senso tra contesti simili mi sembra si tengano insieme delle risposte pur fallibili, incomplete, agli interrogativi su come e dove possa nascere un libro e al tempo stesso si rende evidente come un’esperienza di laboratorio di scrittura, anche se non bastevole da sola a condurre in porto un esordio, possa rivelarsi necessaria.
L’officina invece, in estrema sostanza, possiamo definirla come uno spazio dedicato alla cura, alla riparazione delle cose, in questa di minimum pure delle persone e delle storie, con l’intento di restituirle al mondo esterno almeno un pochino meglio di quando ci sono entrate, aggiungendoci del valore. Come nell’arte del kintsugi.
Alla luce di tutto questo ci si sente forse autorizzati a sperare che Esther Bondì abbia trovato proprio nell’officina di minimum fax quell’oro che le serviva per tenere insieme tutti i cocci dei suoi Piatti Rotti. Perché poi, alla fine, nella stretta fessura che tiene insieme il prima e il dopo in un esordio pare che ci si infili soltanto una parolina: scrittrice.
Fabrizio Matetich è nato a Milano nel 1996. Nel 2021 si è classificato terzo al premio Chiara Giovani con il racconto breve Senza Scarpe. Nel 2023 ha frequentato questa storia è un’officina, il laboratorio di scrittura creativa di minimum fax. Nel 2024 ha pubblicato il racconto breve Manutenzione Programmata su Repubblica Milano. Dal 2021 lavora nell’ambito della produzione audiovisiva.