Chi scrive non parte mai da zero: i libri dietro ai libri
[L’articolo raccoglie alcune riflessioni emerse durante una lezione aperta a gennaio 2019 (di cui trovate la registrazione qui) per inaugurare il nostro laboratorio di narrativa.]
Chi scrive storie non comincia mai da zero, parte sempre da qualcosa, e questo qualcosa sono spesso i libri che ha amato.
Per Carola Susani questa consapevolezza è rassicurante: quando si scrive gli autori più amati diventano compagni di viaggio che camminano sempre accanto, forniscono spunti di riflessione sul mondo quotidiano, e suggeriscono soluzioni ai problemi. Questa vicinanza aiuta anche a uscire dall’isolamento della scrittura.
Il consiglio di Carola a chi vuole scrivere è quindi questo: non sentitevi mai soli, trovatevi padri, madri, fratelli e sorelle letterari.
Qualcuno potrebbe obiettare che alcune storie, per quanto incredibili, risentono troppo dell’epoca in cui sono state scritte e quindi non possono parlare di noi e del nostro presente. In realtà si deve imparare a guardare alla sostanza. Per esempio, La tempesta di Shakespeare è la storia del rapporto tra un padre e una figlia, ma anche del rapporto dell’uomo con un mondo percepito estraneo e misterioso – non a caso, Shakespeare scriveva nell’epoca delle grandi colonizzazioni, quando i paesi oltreoceano e i loro abitanti erano immaginati come fantastici e alieni almeno quanto Ariel e la sua isola.
Un altro esempio è Frankenstein di Mary Shelley, che affronta temi di bioetica e biopolitica, e anche il problema della violenza e di come essa possa scatenarsi in modo incontrollato e incontrollabile, nonostante le buone intenzioni.
Fermamente convinta che fantastico e grottesco possano essere la chiave per raccontare storie profondamente radicate nella realtà, Carola Susani ha raccolto le influenze di queste storie, unite a L’iguana di Anna Maria Ortese e Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi, che suggeriscono anche l’idea che la commistione di registri linguistici possa raccontare la quotidianità senza scivolare nella piattezza. Da tutto questo è nato il suo romanzo La prima vita di Italo Orlando.
Anche per Fabio Stassi il primo passo per scrivere è leggere. Tra i tanti libri che hanno condizionato la sua formazione di scrittore, tre gli sono particolarmente cari. E non sono esattamente dei romanzi.
La storia del primo di questi libri è alquanto buffa. Poiché da bambino Fabio non condivideva molti interessi con i suoi coetanei, un giorno suo padre gli regalò dei soldi perché comprasse l’album di figurine dei calciatori, e fosse quindi “costretto” a socializzare per scambiare i doppioni. Ma all’edicola vicino casa l’album dei calciatori era finito, e così l’edicolante propose a Fabio un’alternativa che per educazione non si sentì di rifiutare: l’album di figurine dei personaggi del Risorgimento italiano. Inutile dire che era improbabile trovare un coetaneo con cui scambiare le figurine, ma quella collezione, che Fabio non è riuscito ancora a completare, lo ha spinto a interessarsi alla grande Storia e alle storie che vi si nascondono.
Il secondo libro che gli è particolarmente caro è un manuale di scacchi (in cui molte pagine sono dedicate allo scacchista José Raúl Capablanca, protagonista de La rivincita di Capablanca). Gli scacchi sono un paradosso: le partite si giocano su 64 caselle e con 16 pezzi, ma le mosse possibili sono infinite. Eppure la mossa finale è una e una sola, lo scacco matto. Gli scacchi sono diventati una metafora della scrittura: un gioco in cui si possono ottenere combinazioni infinite a partire da strumenti definiti, e in cui è fondamentale chiudere bene la partita, dando scacco matto al lettore.
Il terzo testo caro a Fabio è La mia autobiografia di Charlie Chaplin (che lo ha ispirato per L’ultimo ballo di Charlot). Per quanto sia un libro pieno di dettagli su ogni film e aspetto della vita del regista, non cita minimamente Il circo, girato in un periodo denso di vicissitudini e disgrazie. Evidentemente Chaplin ha deciso di rimuoverlo dal racconto della sua vita, ed è stato proprio questo silenzio a suggerire che laddove c’è una reticenza, c’è un segreto e quindi una storia da raccontare. Bisogna solo scoprirla.