Narrare breve: quattro racconti

Narrare breve: quattro racconti


Nella scorsa edizione del seminario dedicato alle narrazioni brevi e brevissime, a cura di Danilo Soscia, ci siamo divertite e scrivere dei romanzi in tre righe, che trovate raccolti qui, e dei racconti che in una cartella, o poco più, racchiudessero una storia, e poi li abbiamo letti, editati e riscritti insieme.
Ecco quattro di questi racconti, gli altri arriveranno a breve.


Breve fuga

di Anna Chiara Ferioli

Foto di Nicolas J Leclercq.

Da bambino sono andato a fare un viaggio al nord. Intendo davvero al nord, dove ci sono le aurore boreali, le renne e tutto il resto. Un giorno mi sono ritrovato con mio fratello su una slitta. Correva sul ghiaccio con una velocità tale che dopo pochi minuti ero già paralizzato dal freddo. Del paesaggio coglievo solo pochi frammenti, luminosissimi e pieni di neve. 
Così è come ricordo la mia giovinezza: pochi e limpidi ricordi. Così è come ho trascorso le mie giornate fino ad oggi: passando a tutta velocità da un punto all’altro.
Del mio passato ricordo alcune persone. Soprattutto, ricordo le loro voci: a volte mi stupisco di come io riesca a rievocarle con tanta precisione. I loro timbri specifici e la cadenza di ogni parola sono le uniche cose rimaste davvero impresse in questa mia mente sfiancata.
La mia compagnia adesso consiste in questi rumorosi ricordi, privi di una coerenza che li tenga uniti e che dia loro un senso.
Di me stesso non so niente, tantomeno so chi fossi io allora: se avessi tutte queste informazioni le cose sarebbero molto diverse, e questo momento di lucidità non sarebbe così raro e squallido; o forse sto solo confondendo la causa con l’effetto.
Mentre la neve lentamente ricopre la mia casa e mi impedisce una via d’uscita, mi chiedo quale possa essere l’unica idea che valga la pena portarsi nella tomba: non vorrei andarmene da qui a mani vuote. La mia vita è stata un sogno, cosparso di simboli e arabeschi inaccessibili, e vorrei che alla sua conclusione ci fosse qualcosa di integro.
Forse l’esistenza è surreale per tutti: a quest’ultimo pensiero intendo affidarmi. Se fosse vero, la mia incomprensione non avrebbe più importanza, e, giunto alla fine, mi sentirei meno solo.

Anna Chiara Ferioli è nata nel 1999, studia Lettere Moderne a Bologna. Legge autori nordamericani, tra cui Saunders e Auster; è interessata ai temi di autori come Kafka, Pirandello e Sartre. 


Cartapesta

di Francesca Arlotti

Foto di Bianca Berg.

Mi guardo la mano. È cartapesta che sale e si indurisce lungo il polso e il gomito che si è bloccato. E la spalla, sul collo, che mi pesa e ho la testa che non la posso più girare e se non la giro come ti saluto mentre vai via? Come la vedo la tua camicia bianca che nasconde la porta e ride delle cose che dici che non so fare? Che se poi non torni non t’ho salutato, e l’ultima parola che ti ho detto è stata: crepa, bastardo, chi ci perde sei te. Ci perdi te, che tanto non è vero. Io il pranzo e la cena me li so fare, e te giusto i nodi alle scarpe. Come quando pioveva e stavamo con gli altri, che m’hai fatto alzare il piede su una ruota e chino mi hai rifatto il fiocco che c’avevo i lacci zuppi e gli schizzi di pozzanghera dietro al ginocchio, e con i lacci mi hai fatto stringere il petto. Ma poi la sera la moca l’hai abbandonata sul gas ed è esplosa di solitudine. E tanto non sono io che non so dire manco ciao. Sei te che te ne vai ogni due mesi, e poi torni quando ti pare pure se io l’ho capito che ho sbagliato e ho chiesto scusa. Ma te niente, te ne vai con la camicia che ride e mi lasci che non ti posso salutare che c’ho il collo stanco e la spalla ferma con il gomito e il polso di cartapesta, che se forse ti avessi salutato prima questo gesso non me lo mettevano. E allora rimane un: crepa, bastardo, che chi ci perde sei te. Pure se piango, e mi manchi. E piango ancora, e poi mi manchi, e ora che sei qui lo so che magari la prossima volta lo capisci che non lo devi fare, e allora quando ti saluto di nuovo non sono più cartapesta. Così poi ti aspetto che torni e facciamo l’amore fino a: crepa, bastardo. Così poi torni, e poi.

Francesca Arlotti è nata nella capitale, in un quartiere con la targa “Roma” barrata e arrugginita. Ha iniziato a scrivere per spirito di sopravvivenza, ed è approdata a minimum lab dopo una laurea in comunicazione, una manciata di corsi sul mondo editoriale e la collaborazione come scrittrice in albi legati a concept art e gioco di ruolo.


La lingua del nemico

di Paulina Spiechowicz

Foto di Ahmad Ossayli.

Mia madre mi chiamò e mi disse che mio padre era appena caduto dalle scale. Aveva avuto un trauma cranico, ma non volle aggiungere altro sulle conseguenze di quell’incidente. 
– Che cosa dicono i dottori?
– Rispose che non poteva parlarne al telefono.
– Sta per morire?
– Peggio.
Mi chiesi che cosa ci fosse di peggio della morte. Dovetti disdire le lezioni all’università e comprare un biglietto aereo per tornare a casa. Come sempre mi accadeva nei momenti di dubbio, fui invaso dai tic. Il mio volto, mentre mi recavo all’aeroporto, l’indomani mattina, saltellava.
Arrivai a Beirut una manciata d’ore più tardi. All’ospedale, la mia famiglia mi aspettava. Scorsi il viso di mia madre che, assieme a quello di mia sorella, era terrorizzato. Nella stanza, mio padre mi guardò così come si guarda uno sconosciuto.
– Ciao papà, dissi.
Rispose senza che potessi capirlo. I suoi occhi mi parvero più piccoli, come se facesse uno sforzo di concentrazione. Per il resto, non era cambiato. In che lingua parlava? Lo ascoltai di nuovo. Solamente allora capii.
– Com’è possibile? Chiesi al medico che, in quel momento, entrò in sala.
– Se vivete vicino a Tyre, magari ascoltava la radio israeliana. Potrebbe anche essere una spia, o era stato fatto prigioniero durante la guerra.
L’unica certezza, era che mio padre aveva perso la memoria e parlava ebraico. Mia madre entrò poco dopo.
– Che cosa diranno i vicini? Disse, preoccupata.
Già, i vicini. Mia madre era ossessionata dai pettegolezzi, dal vociferare maligno. La sola cosa che le importava, da sempre, era che l’immagine della famiglia rimanesse intatta. Cercai di rassicurarla: avrei fatto il necessario per non metterla in pericolo.
Tornai a casa per darmi una rinfrescata. Una volta nell’appartamento, presi a frugare tra gli oggetti di mio padre. Misi in subbuglio la stanza, l’armadio, il soggiorno. Mi fermai solamente davanti a una fotografia di una giovane ragazza che non avevo visto prima. Rappresentava una donna vestita da soldato. Al braccio, portava la bandiera di Israele. Dietro la foto, c’era scritto il suo nome.
Passai la notte a fare ricerche su internet, trovai il suo numero di telefono. Mentre la chiamavo, con il portatile e il viso che trabalzava, sudavo all’idea di poter essere denunciato per aver avuto uno scambio con Israele.
Mi rispose una ragazza. Purtroppo la madre parlava solo ebraico; propose di farci da interprete. Le chiesi se conosceva Michel Sifri. Michel? La sentii esclamare da lontano. Michel! Entrambe le donne pronunciarono il nome di mio padre. Chi parla al telefono? Chiese la ragazza. Sono il figlio, dissi. Mi attaccò in faccia.
Quando richiamai, la ragazza mi disse di smetterla con gli scherzi: Michel ha solo una figlia, la sottoscritta! Attaccai a mia volta. Pensai a mia madre. Che cosa avrebbero detto, i vicini? 

Paulina Spiechowicz è nata a Cracovia e cresciuta in Italia. Ha pubblicato la raccolta di poesie Studi sulla notte (Edizioni Ensemble, 2012), e racconti con Giulio Perrone Editore. In Francia, è uscito Intimism (Editions Horror Vacui, 2013), e Les mots qui nous manquent (Calmann-Lèvy, 2016). Due testi per il teatro, Medea’s visions (2018) e Oreste will be back (2019), sono andati in scena a Parigi alla Ménagerie de verre, a Napoli al Teatro Bellini e alla Fondazione Mondragone. 


La finestra

di Pamela Frani

Foto di Jens Johnsson.

Fwwd. Fwwd.
Il vento continuava a ululare da dietro la finestra.

Questo sibilo dietro le spalle non mi lascia concentrare, non posso sbagliare ora, dopo tutto questo tempo. Finalmente Luca rientra oggi dopo tre mesi. Gliel’ho promesso.

Nonna Isa continuava a sminuzzare prezzemolo, schiacciare aglio, tagliare melanzane con una forza che non aveva da tempo.
Suo nipote Luca rientrava per le vacanze. A parte qualche chiacchierata al telefono la domenica dopo il caffè, nonna Isa non aveva avuto contatti con suo nipote.
“Luca, Luca mi senti? Io non sono tecnologica: quello tuo padre ti sa vedere al telefono, ma io quando ti vedo?”
“Dai nonnina non urlare, ti sento anche se sono lontano.”


Luca aveva deciso di partire due anni prima. Non riusciva più a stare in paese.
Amava andare in montagna, camminare lo rilassava.
Lui sempre pensieroso e taciturno si trovava a suo agio in mezzo ai sassi e i rami degli alberi.
Giorgio lo accompagnava in quelle sue escursioni. Totalmente diverso da suo fratello maggiore, preferiva andare a concerti e raduni, sempre pronto alla battuta e noncurante delle conseguenze.

“Se non fosse per me, tu non ti divertiresti mai fratellone!”

Erano innumerevoli le occasioni in cui Luca lo aveva tirato fuori dai casini in cui si era cacciato. Ogni volta si riprometteva che era l’ultima, ma poi ci cascava di nuovo. Giorgio decifrava la vita per lui, era il filo che lo agganciava alla realtà.

“Guarda Luca questa discesa la faccio a occhi chiusi, io sono un equilibrist…

Quella volta non riuscì a finire la frase, i suoi piedi persero terreno su quella corda immaginaria e in un soffio di vento Luca vide suo fratello precipitare giù dal costone.
Quel giorno Giorgio perse l’equilibrio e Luca il suo bandolo.

Va bene. Un po’ di peperoncino ci sta bene.

Fwwd. Fwwd.
Il vento continuava a sibilare sulla nuca.

Toc. Toc.

“Nonna sono io!”

Sul vetro Giorgio le sorrideva, anzi no: Luca.

Pamela Frani di sé dice: sono un’abruzzese in trasferta, adoro l’odore della legna che arde nel camino e il rumore della cipolla che soffrigge. Se dovessi trovare una frase per descrivermi, sarebbe sicuramente il detto “scine ca scine, ma ca scine ‘ndutt”.

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